Immergersi nell’opera grafica di Kathe Kollwitz (Konigsberg 1867 – Moritzburg 1945) è come affogare in un oceano di dolore, annaspare tra la povertà più nera, strozzati da una fame che non lascia scampo. Un viaggio allucinante, crudo, aspro e violento.
La Kollwitz è cantore delle classi umili. La sua anima socialista le permette di guardare con compassione –senza mai scivolare nel compatimento– alla miseria dei contadini, alla sofferenza dei bimbi affamati, al dolore delle donne che vedono i loro figli e mariti inghiottiti dalla guerra. “Ho bisogno di esprimere la sofferenza umana che non ha mai fine –scrive nei sui diari– che al momento è immensa”.
Il percorso dell’autrice, cronologicamente riprodotto dall’esposizione, si snoda tra la rappresentazione della miseria e l’attesa della morte. Settanta opere su carta che documentano in modo esaustivo i cinque cicli tematici sviluppati dalla Kollwitz.
Nel 1893 Kathe assiste ad una rappresentazione de La rivolta dei tessitori, ispirata al dramma dello scrittore naturalista Gerhard Hauptmann. La sua sensibilità, già attenta al tema all’indigenza –stava elaborando un ciclo di acqueforti ispirato al Germinal di Zola– rimane fortemente impressionata. Ne nasce un ciclo di 6 fogli, 3 litografie e 3 acqueforti, dal titolo omonimo, realizzate nell’arco di quattro anni. Bambini esangui guardano con occhi sbarrati la morte imminente, la rivolta finisce in tragedia.
Tra il 1903 e il 1908 è la volta di Guerra dei contadini, sette acqueforti ispirate all’insurrezione che ha incendiato la Germania meridionale nel 1525. Gli aratori sono piegati dalla fatica peggio che bestie da soma; i rivoltosi vengono incitati dalla figura, a metà tra mito e icona femminista, di Anna La Nera; le due ultime tavole ritraggono misere vittime e tristi prigionieri.
Scoppia la Prima Guerra Mondiale, l’amato figlio Peter parte soldato per non tornare mai più, e la Kollowitz trasforma il suo dolore personale in universale. Nel 1922 inizia il ciclo Guerra, che terminerà nel ‘25. Da allora in poi la xilografia diventerà una delle sue tecniche preferite. Incisioni secche e profonde che spurgano intollerabili e disumane sofferenze. Così come nelle tre tavole di Proletariato.
La rappresentazione realistica delle condizioni del popolo non è gradita al nazismo, che non la bandisce mai in modo diretto –seppure la classifichi all’interno dell’arte degenerata– ma le toglie ogni carica accademica e ogni effettiva possibilità di operare.
Alla morte, presenza incombente in tutta la produzione, la Kollowitz dedica l’ultimo ciclo di 8 fogli litografati. È una morte ambivalente, che ghermisce bambini inermi oppure che viene rappresentata come consolatrice, “amica” (titolo di una delle litografie), unico traguardo possibile per raggiungere la pace. Ne La morte chiama è la Kollwitz stessa che, lucidamente, si ritrae.
In mostra è anche visibile il lungometraggio muto di Piel Jutzi, che ha avuto la direzione artistica della Kollowitz, Il viaggio di mamma Krausen verso la felicità. Una donna dal volto inciso dal dolore e in perenne lotta con la miseria, che alla fine si lascerà ghermire dalla morte come da una benevola compagna. Unico anelito di speranza nel film è il socialismo, rappresentato dalla figlia di mamma Krausen, che si innamora di un operaio e ne abbraccia gli ideali di uguaglianza e lotta di classe.
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Il Museo dedicato a Kathe Kollwitz a Berlino
fiorenza melani
mostra visitata il 15 aprile 2006
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