Gusti personali a parte, non si può dire che
Giuseppe Gabellone (Brindisi, 1973) sia un artista cui piaccia ripetersi, quanto meno nelle forme. Resta il discorso sulla scultura, indagata, talvolta violentata, spesso irrisa, qualche volta fraintesa, ma senz’altro inscritta in una ricerca che ne coglie e ne sviscera le specificità in un eclettismo stilistico che prescinde la serialità. Una relazione sulle forme che ha i suoi precedenti non tanto negli universi kitsch o nell’arte povera, come potrebbero suggerire materiali, dimensioni e soggetti di alcune soluzioni trascorse, quanto più nelle disamine di
Piero Manzoni sul mezzo, rivisitato in chiave contemporanea, come dimostrerebbe l’ultima fatica da Guenzani, preludio a una mostra che andrà al Domaine de Kergue’hennec.
Questa volta, infatti, il rapporto con la scultura è risolto nello spazio bidimensionale, attraverso sette immagini fotografiche che imprigionano i volumi in un intenso racconto in cui protagonista è lo sfondo che ospita gli stessi. Una Parigi ex capitale dell’arte contemporanea, dopo il colpo di mano newyorkese, che riscatta il proprio ruolo attraverso atmosfere nostalgiche e l’ostentazione delle vestigia dei bei tempi andati. Non a caso, le muse immanenti di Gabellone, statue metafisiche stagliate in primo piano, presentano sull’epidermide levigata, priva di connotazioni fisiognomiche, i segni del tempo, una ruggine che fa presagire decenni trascorsi sotto le intemperie, a testimonianza di una storia che è soltanto allusa ma mai realmente vissuta.
Le spalle possenti, il capo reclinato, i corpi informi sono abbandonati nella desolazione di un paesaggio sgraziato, che poco concede agli sfarzi della
ville lumière,
ritratta con occhio impietoso nelle sue periferie, nei suoi panorami industriali, tra le ferrovie, come insegna la letteratura post-apocalittica, che vuole negli incroci ortogonali modernisti l’estetica della solitudine contemporanea.
Poggiate, con tutto il basamento, dal ruolo consapevole e preponderante, invecchiato anch’esso ad arte, su cavalletti forse usati da muratori, anch’essi travolti dalla persistenza della memoria, composti da forme geometriche che trascendono la funzionalità e che forse appartengono, come tutto l’impianto, alle congetture dell’artista, i
Senza titolo fanno affiorare con una certa indolenza tutta una serie di richiami alla storia dell’arte. Da quello prepotente alla statuaria classica, nella fattispecie ai busti commemorativi, alla più sfacciata strizzatina d’occhio all’
Umberto Boccioni di
Forme uniche della continuità nello spazio, fino alle atmosfere tarkovskiane, le forme liquide di
Tanguy, passando per gli antropomorfismi di
Max Ernst e le presenze inquietanti del più nostrano e discreto
de Chirico.
Il tutto opacizzato dai segni dell’erosione, che assumono il senso della musealizzazione e appiattiscono i passaggi della storia sul corpo postmoderno delle ricerche più recenti attraverso l’obiettivo fotografico, che più che documentare, interpreta, più che astenersi, sembra tradurre i soggetti in protagonisti, regalando loro il senso dell’attimo e la lunghezza della durata decantata da Roland Barthes nella
Camera Chiara.
Così, i volti delle muse, nell’incontro improbabile con l’apparecchio che ha scalzato la mimesi pittorica, diventano aedi di un racconto che dura da secoli. Così, attraverso il confronto duro con la contemporaneità, prendono atto della propria condizione anacronistica e cedono il testimone alle generazioni che verranno, scegliendo come teatro della consegna quella Parigi che fu culla dell’arte nel XIX secolo.