La produzione degli ultimi vent’anni di
Tony Cragg (Liverpool, 1949), ripercorsa alla Fondazione Stelline, è tutta informata dalla suggestione per la forma e la materia. A partire dalle
Early Forms degli anni Ottanta -la svolta forse più evidente nella sua carriera- si dipana una ricerca etica, quasi scientifica, stranamente sospesa fra concettualità metodica e concretezza dei risultati. Per porre l’uomo a confronto col proprio futuro materiale.
L’iniziale riferimento dello scultore è a un
Duchamp trattato alla stregua di un repertorio di idee, riconducendo il frammento usato e abusato a una concezione formalista, se non addirittura ottica. Il successivo addentrarsi nel regno della tridimensionalità segna sempre più marcatamente un contraddittorio ritorno a certe reminiscenze giovanili, dalla levigatezza scostante degli oggetti minimalisti al vitalismo delle forme antropomorfe di
Henry Moore. Jon Wood non manca di notare che
“Cragg è uno scultore che realizza ancora sculture isolate e che rifiuta di accettare il predominio del ready-made
e delle installazioni”. Ciò che può suonare retrogrado, il recupero di un concetto di scultura tradizionale come oggetto chiuso in sé stesso e offerto alla contemplazione, si traduce invece in una piena maturazione dei mezzi espressivi.
Non è certo contemplato il ritorno alla figurazione, autentico
caput mortuum della scultura contemporanea. La forma si evolve scevra da riferimenti reali, eppure è reale essa stessa, propositiva attraverso una serie di istanze formali innovative. Il dinamismo si esprime non solo mediante le teoricamente facili soluzioni multi-assiali, comunque pregiate dal punto di vista tecnico. È una concezione profonda, una mentalità per cui la forma non è scelta nella sua compiutezza anche utilitaria, quanto nella fase di transizione. In potenza e non in atto. Ulrich Wilmes conferma:
“Il significato di un oggetto emerge quindi dalla sua relazione materiale con un mondo visivo, che non è statico ma in costante sviluppo e diversificazione”. Ecco allora l’elezione del contenitore a elemento di studio, il recipiente come espressione dell’ambiguità della forma, che non si chiude pur non essendo aperta, che è volume e superficie estesa, nastro di Moebius senza soluzione di continuità.
Non si può più parlare di scultura classica nel momento in cui la sua reinterpretazione comporta la sconfitta del senso della vista a favore della motilità. Perché, per comprendere appieno opere strutturalmente complesse come
Turbo (1999) e
Declination (2004), bisogna saggiarne l’espansione spaziale, persino il ripiegamento interno. Il connubio d’indagine formale e materica segna infine l’apice poetico di Cragg, quella sensibilizzazione estrema alla causa del mondo materiale assunto in piena coscienza etica. L’opera
Divide (2006) è una colata di acciaio lasciata allo stato d’ipotesi, eppure idea formale così forte da giocare incessantemente con le condizioni di luce esterna, svanire assorbita nei riflessi del sole o solidificarsi a contatto con l’ombra.
Una dinamicità degna di
Boccioni e
Brancusi, una sottigliezza interpretativa che opere più aggiornate ai registri della violenza materica, vedasi
Formulation (Stance) (2000), non riescono neppure ad avvicinare.