Si avvicina il centenario del Futurismo, fissato per il 2009. E s’intensificano le interessanti riletture critiche dell’unica avanguardia italiana, oltre all’Arte Povera, che abbia goduto di spiccato interesse anche all’estero. Dopo l’eccezionale mostra
Il futuro del Futurismo alla Gamec di Bergamo e il volume
Futurismo da ripensare di Giorgio de Marchis, uscito per Electa, è la volta della mostra curata da Marco Meneguzzo e Danna Battaglia Olgiati presso la galleria Fonte d’Abisso. L’approccio è simile e contrario a quello della Gamec. Si mettono a confronto le opere d’epoca dei futuristi con prove successive che ne condividono la forma oppure lo spirito, concentrandosi però solo su un aspetto dell’eredità futurista, l’approccio all’architettura (contemplato anche dalla mostra bergamasca).
Ciò che lega i futuristi e i loro “eredi” è l’approccio all’architettura come una delle facce di un poliedro che è l’arte totale, l’arte come unione spregiudicata di discipline diverse.
E non è chiaro quanto tale atteggiamento derivi da un’imitazione di
Marinetti,
Depero e soci, oppure quanto tale consonanza testimoni solo della loro preveggenza, dato che i loro temi sono rintracciabili anche in opere realizzate decenni dopo. Il taglio di Meneguzzo e della Olgiati è comunque maggiormente rivolto alla ricerca di consonanze formali, con risultati di grande raffinatezza.
Tra le opere storiche, sfilano i progetti urbanistici di
Antonio Sant’Elia per la Nuova Stazione di Milano, di
Mario Chiattone (il Palazzo della Moda e una centrale elettrica) e di
Virgilio Marchi per una stazione dei treni funicolari, oltre a quelli degli anni ’40 di
Prampolini (il progetto per l’E42 e la decorazione del teatro per la Mostra d’Oltremare). Sono però di
Fortunato Depero alcune delle opere migliori in mostra. Due gioiellini: l’elegantissimo, penetrante
Personaggi in un interno (1922), che compenetra uomo, spazio abitativo e spazio urbano; e la tarsia di panni colorati
Paracadutisti, stabilimenti Caproni e Trimotore (1937).
Tra le opere degli “eredi”, allestite secondo azzeccati e sottili accostamenti, un concretissimo
Fontana del 1957, un
Melotti che sfiora la decorazione e il design (!), un
Consagra scultore-architetto, un
Lo Savio progettista, tre lavori di
Giuseppe Uncini e
Mario Merz con
L’alveare e la pentola, igloo del 1985 che accoglie il visitatore, immergendolo da subito nella suggestione.
Si esce con grande nostalgia, da questa mostra. Nostalgia per un tempo non così distante, in cui gli artisti volevano farsi architetti o designer urbani, e non viceversa.