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Io non so, non posso dire che cosa ho voluto fare. Chi lo sa, non vuol capire che si può anche tacere” (Giulio Paolini). Al riecheggiare della parole sullo scandalo della comunicazione pronunciate nei corsi presso la Fondazione Ratti, fanno da specchio queste rinunce alla teoria esplicita sull’arte. Eppure, di teoria implicita ce n’è molta e la fluidificazione dello sguardo scopre il vero scheletro teorico che supporta il lavoro di
Giulio Paolini (Genova, 1940; vive a Torino). Lo studio del momento creativo passa attraverso un utilizzo della pittura e della scultura come dispositivi concettuali. Mentre la riflessione meta-artistica si serve dell’arte come di uno strumento, lavorando allo stesso tempo come un artista inconsapevole.
Le figure dei pittori Zeusi e Parrasio, un prelievo da mitologia greca e avvenimento storico, presiedono alla decostruzione delle arti classiche. Nell’omonima opera, la divisione in porzioni di una testa greca in gesso invita alla ricomposizione virtuale dei profili. Alle pareti, a sigillare il gioco di corrispondenze del lavoro scultoreo, due tele composite che ragionano attraverso l’ibridazione del
recto e del
verso, sulla superficie della rappresentazione e sui confini provvisori e casuali della tela.
L’allestimento di
Zeusi e Parrasio fornisce anche una soglia, introduzione all’operazione murale e a un nuovo spazio concettuale.
Scena muta (la stanza dell’autore) si compone di citazionismo interno e citazionismo esterno. Un assemblaggio ragionato e misurato di strumenti da lavoro, tavole sul disegno geometrico e tele bianche, frontali o rovesciate, che rappresentano la tela. Per comunicare la sospensione che produce la cornice: “
Tutto insomma lì si trova, a misura di un domani uguale a ieri”.
Il particolare approfondimento sulla tautologia autoriale trova spazio nella rappresentazione del pittore che dipinge se stesso mentre lavora all’esposizione. Secondo un percorso visivo dai margini verso il centro, seguendo diagonali e concentrazioni di forze trasversali, Paolini descrive la tecnica artistica come un mezzo di sottrazione che riduce ai
minima l’operazionalità artistica, ritrovando nel suo fondo libidinale le strutture, le ragioni d’azione.
In risonanza con l’intervento murale, altre visioni della scena pittorica si moltiplicano nella serie di 74 tavole ospitata dalla seconda sala. Il supporto della tela, come ambiente di formazione dell’opera d’arte, si completa nella caratterizzazione del suo esecutore. Se la tecnica è condotta, direzionata verso una fine preciso, ovvero l’identificazione di un “
passaggio sotterraneo”, il discorso sull’autore è un diaframma riflessivo altrettanto potente. “
L’autore? Un attore!”, afferma Paolini in una delle composizioni poetiche che corrispondono alle tavole. L’istrionismo dell’artista che interpreta se stesso, che non abita lo spazio.
Ma il tempo si risolve nella narrazione della natura illusionistica dell’autore, la riconversione di immagini fotografiche e della riproduzione dà luogo a esiti vertiginosi che lavorano sulla parola attraverso figure retoriche. Il
lapsus dell’autorialità.