Il Museo di Fotografia Contemporanea, prima realtà pubblica di rilevanza nazionale dedicata a questa arte e che ha la sua sede a Cinisello Balsamo, si apre nuovamente -dopo il fortunato esordio con gli scatti di Federico Patellani– all’esterno. La scommessa è portare nella rimodernata piazza principale della città, nel cuore del periodo natalizio, un allestimento di fruizione tutt’altro che immediata con tema social-politico, ma anche profondamente umano: la galera.
Davide Ferrario, regista cinematografico di grande fortuna (suo è Dopo Mezzanotte, pellicola ambientata interamente nel Museo del Cinema di Torino, che due anni fa colpì positivamente pubblico e critica), si trasforma, per la prima volta nella sua carriera, in fotografo. Nell’estate del 2002 la direzione del carcere milanese di San Vittore ordina la ristrutturazione del quarto e quinto braccio dell’istituto di detenzione. Si tratta di celle sovraffollate, occupate da più di ottocento detenuti in attesa di giudizio. Ferrario ottiene il permesso di entrare nei bracci svuotati prima della ristrutturazione. Porta con sé una macchina fotografica e per un giorno intero scatta fotografie a quei muri scrostati, fissando immagini di speranza e rassegnazione, congelando tracce di vita in quegli spazi angusti e decadenti.
Ferrario sceglie la strada più difficile per raccontare il carcere: quella delle cose. Non c’è un volto fotografato, non il viso di un solo recluso.
“Confesso di non aver avuto mai il coraggio di fotografare la faccia di un detenuto dice il regista mi sembrava che l’esposizione del dolore personale fosse un’ulteriore furto, un’altra beffa”. Sceglie una strada complessa per sostenere la sua tesi (“Questo carcere non esiste che per giustificare se stesso. In queste condizioni, parlare di recupero del detenuto è ridicolo”) e fotografa liste della spesa, messaggi che i carcerati hanno scritto a loro stessi, carte geografiche annerite, fantasiose costruzioni con pacchetti di sigarette o di pasta, e soprattutto donnine discinte, spesso accanto a Gesù Cristi e Madonne.
Il suo è un lavoro di semplificazione, uno sguardo puro e disincantato su come ognuno rielabora il proprio spazio e come lo spazio si modifica irreversibilmente al passaggio dell’uomo. Tre gli elementi ricorrenti: la geografia, intesa come bisogno di segnare il territorio ma anche come ricordo (nei disegni dei detenuti di cartine geografiche); la religiosità, quella un po’ infantile delle grandi immagini barocche e, spesso fortemente mescolata alla rappresentazione della fede; la sessualità, a volte in un elegante corpo femminile, più frequentemente volgarizzata (emblematico il dualismo nell’immagine della Dama con Ermellino di Leonardo accanto a quella sessualmente provocante di Paola e Chiara sulla copertina di una rivista glamour).
All’interno del Museo, merita una visita anche la prima personale italiana dedicata a Candida Hofer, ritrattista di spazi pubblici. Anche in questo caso costantemente vuoti, ma fortemente impregnati della presenza dell’uomo.
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fiorenza melani
mostra visitata il 14 dicembre 2005
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