L’acqua è evocata attraverso lo scorrimento,
flusso continuo, nascita e mutamento. Perché se nel filmato in mostra,
The
Water Diviner,
c’è proprio un elefante che nuota, che pare leggero come in un ventre materno,
in attesa di nascere, d’incontrare la realtà dura e faticosa, nelle opere di
Sheba
Chhachhi (Harar,
1958; vive a New Delhi) è spesso la sovrapposizione del movimento, il fluire
dei piani, le immagini che ritornano nei lightbox a trasmettere la sensazione
del fiume, di un continuo andare che è dell’acqua come della storia. Nulla può
semplicemente stare.
Com’è possibile la staticità quando
il mondo di riferimento è l’India? Infatti, tra motivi di denuncia esposta in
raffinatissime visioni, aria soffocante e inquinamento, si riconoscono densi,
fitti, molteplici riferimenti a quella cultura millenaria, immediatamente
riconoscibile, offerta in sovrapposte stratificazioni. Come su una mappa di
Google: in
Locust Time, lo sguardo può catturare l’insieme coloristico mentre scivolano
verticalmente creature femminili blu, figure in via di metamorfosi, oppure
soffermarsi su singoli particolari, citazioni, immagini di libri antichi,
oppure ancora sperimentare la profondità e scoprire quindi strani greggi, in
forma scandita, schematica, che nascondono solo in parte la metropoli o la terra
riarsa, crepata.
Il fascino di queste opere nasce
dall’intreccio di preziosità estetica e pensiero, indignazione (l’avvelenamento
del pianeta) e riconoscimento della complessità: il flusso dell’acqua è anche
del tempo, della storia, che però – mentre tutto trasforma – anche conserva
quanto è stato. Così davvero è l’India. Ogni epoca è sempre presente, anche
nella modernizzazione più affannosa.
Questo dialogo scoperto con il
passato è reso esplicito negli
Illuminated books, supporti in legno in forma di
libro con immagini digitali, per
Swara con doppio strato nella lettura e nelle immagini.
La sovrapposizione di più elementi è certo fra i caratteri maggiormente
significativi: in
Robes #1, sullo sfondo di una città avvelenata, si scorgono tuniche
rituali e uccelli irrigiditi nelle forme, disegni tratti da antichi testi;
mentre in
Robes #2 sono necessarie tute protettive per raccogliere materiale inquinato,
anche qui con più strati.
Perché nel suo impegno, che non
arriva mai ad asservire l’opera al messaggio sociale e che invece acquista
anche culturalmente, politicamente una maggior densità, Sheba Chhachhi
evidenzia nei suoi lavori diversi aspetti dolorosi della vita d’oggi: l’essere
donna, l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, d’ogni cosa, che così s’intorbida
e si ammala. E anche l’elefante – natura in sé e simbolo dell’India – pare
sbriciolarsi in quel filmato, separarsi in tante particelle nell’acqua. Per poi
ricomporsi, anche, in un continuo divenire.
La lettura molteplice è richiesta
esplicitamente, in particolare in
The Trophy Hunters, un’installazione dove in uno dei
lightbox scorrono testi sulla creazione del Kalashnikov,
Meditation on the
AK47, mentre
davanti sono posti due sgabelli di legno con strumenti per la tessitura.