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“SAMO è morto” scriveva sui muri e sulle strade di SoHo e del Lower East Side di New York Jean‐Michel Basquiat, che considerava i propri trascorsi da graffitista un passato di cui sbarazzarsi. In realtà gli echi della strada non lo abbandoneranno mai neanche quando Annina Nosei diventerà la sua principale gallerista che sancirà l’entrata dell’artista fra le icone dello star system dell’arte. Il Mudec celebra l’artista con la mostra “Jean‐Michel Basquiat”, curata da Jeffrey Deitch e da Gianni Mercurio con circa 140 lavori realizzati tra il 1980 e il 1987.
Gli enigmatici graffiti concettuali in cui parole e lettere si mescolano alle immagini hanno per oggetto i suoni, i rumori, l’energia e la cacofonia delle strade dei bassi fondi fondi. Sirene d’ambulanze, incidenti d’auto, insegne, giochi urbani, sono solo alcuni degli elementi che ricorreranno nelle tele sotto forma di griglia, iconologie e ricordi d’infanzia. Una griglia come quella tracciata per terra o sui marciapiedi per giocare al gioco della campana o come il simbolo della corona, la sua tag da graffitista che rimarrà un elemento iconico e distintivo della sua arte e della sua identità per tutta la sua brevissima carriera, spezzata a soli 27 anni.
Identità, rabbia, orgoglio afro, come in Autoritratto realizzato su tre tavole, in cui spicca la sagoma dei capelli delle origini nere, denuncia sociale e il desiderio di raggiungere il successo come in Yellow tar and feathers, realizzato con piume incollate miste a colori acrilici, pastello a olio e collage, sono alcune della tematiche affrontate dal primo artista afroamericano che prima di raggiungere la fama viveva in strada vendendo cartoline e magliette di sua produzione. Fu così che conobbe Andy Warhol che riconobbe subito il talento del giovane e da cui nacque la proficua serie “Collaboration Paintings”. Riconosciuta come una delle più notevoli collaborazioni della storia dell’arte contemporanea fu pubblicizzata con un manifesto che ritraeva i due artisti come dei pugili con guantoni da boxe. E in effetti di un combattimento su tela si trattava in cui i due artisti, come in un ring, si alternavano. Andy Warhol stendeva il colore o un’immagine serigrafata e quando aveva finito Basquiat aggiungeva e sovrapponeva le sue, dando vita a una specie di improvvisazione che imitava il modo in cui i musicisti jazz realizzano una jam session.
Ma sarà nel seminterrato della galleria di Annina Nosei di Prince Street in vista della sua personale dell’82 che Basquiat dipingerà i suoi lavori più celebri tanto da diffondere la leggenda dell’artista sfruttato e obbligato a sfornare dipinti da vendere ai collezionisti che entusiasti scendevano nel suo studio per assistere all’atto creativo e in preda all’euforia insistere per comprare i suoi quadri ancor prima di essere completati.
Le sue opere, caratterizzate da immagini tratte dal celebre libro di anatomia di Henry Gray che la madre gli regalò quando ebbe un incidente all’età di 8 anni che lo costrinse a una lunga convalescenza, si fondono a immagini della cultura popolare ispirata ai cartoni animati come in Danny Rosen o in Bracco di ferro (proprio così senza la “i”) e in molte serigrafie e disegni. Testimonianza forse di quel mondo colto fatto di parole che trasse dai libri, fonte inesauribile di stimoli, prima ancora che dall’hip-hop, e della cultura di strada da cui trasse le figure che potevano essere mescolate e reinventate liberamente senza mediazione intellettuale.
Riferimenti a note musicali, alle partiture e al jazz miste a collage, objets trouvés e parole spesso cancellate, come a marcarne il significato, si ritrovano in opere come Embittered, sempre marcate da un tratto veloce e istintivo. La figura umana stilizzata o evocata è uno dei soggetti principali della sua produzione artistica atta a rivelare la preoccupazione per l’aspetto che forse fu uno dei suoi maggior tormenti divenuto in seguito segno della propria affermazione e determinazione.
Fusione di graffito e pittura, gesto e scrittura, parola e campitura di colore ha reso l’arte di Jean-Michel Basquiat espressione del proprio tempo. Il tempo di una cultura del remix che caratterizza il postmodernismo degli anni Ottanta.
Sara Marvelli
Dal 28 ottobre 2016 al 26 febbraio 2017
Jean‐Michel Basquiat
MUDEC – Museo delle Culture di Milano
Via Tortona, 56, Milano
Info: www.mudec.it/ita/jean-michel-basquiat