Dio pazzo. Sembra una bestemmia. È pazzo perché amico dei pazzi? O lo è in quanto sommamente crudele? Come osano i sani sfruculiare intorno alla sentenza di un matto, vergata sui muri di un manicomio sopravvissuto a tempo determinato alla legge Basaglia? Bisogna solo guardare. E poi depensare. Come quando si ficca lo sguardo su una bella pittura, che non richiede altro che esser guardata.
Crazy God è la mostra ordinata dalla curatrice in erba e
London-based Alessandra Masolini lo scorso Natale al Pan di Napoli e ora visitabile negli spazi espositivi di Ida Pisani a Milano. Mentre
Yvonne De Rosa (Napoli, 1975; vive a Londra) è la giovane fotografa autrice delle immagini, scattate all’interno di un ex ospedale psichiatrico diroccato. Due amiche, Alessandra e Yvonne, nate a Napoli e reincontratesi dopo tanti anni a Londra. L’una titolare di un’agenzia di comunicazione e promozione artistica; l’altra, fotografa.
In mostra, gli scatti degli oggetti ritrovati da De Rosa nel vecchio ospedale psichiatrico in cui, negli anni ’90, tutte le domeniche prestava servizio di volontariato. “
Chissà dove sono finiti tutti quelli che ho conosciuto qui?”, si dev’esser chiesta un giorno. Ma non accade come in quei film, quando i titoli di coda sono inframmezzati dalla spiegazione di cosa avrebbero fatto in futuro i protagonisti della storia. Non si sa che fine abbiano fatto quei pazzi. Ma qualcosa resta: i loro oggetti. E i muri e le finestre del “loro” manicomio.
Detto, fatto. Non potendo aspettare il permesso dell’assessorato perché la casa di cura abbandonata venisse straordinariamente riaperta, una notte De Rosa vi entra di soppiatto con la sua macchina fotografica. Rivisita il passato, fissandolo nel presente. Esistenze che furono. Tracce riconsegnate all’oggi nel loro eloquente silenzio.
Narrate uomini la vostra storia: attraverso una reminiscenza semplice vien fatto di pensare al romanzo di
Alberto Savinio.
Per com’è allestita, la mostra si sottrae al pericolo pressante del carattere didascalico: né il vuoto truismo dell’indignazione sociale né l’attitudine
maudit dell’impegno poetico. Annichilendo vieppiù, con la lingua ineffabile dell’immagine fotografica, la pensosità facile delle anime belle. La forza tranquilla delle immagini denota l’afflato di un basso continuo, il rumore di fondo che risuona come eterno presente. Un adesso immobile, in via di apparizione. Dove gli artefici di quei rumori di vita sono comunque estinti.
Le immagini di Yvonne De Rosa sembrano invitare l’osservatore a chiedere il permesso prima di entrare. E a restare in silenzio, possibilmente senza troppo pensare. Anzi: sarebbe un esito grandioso se questi raggiungesse non l’orgasmo visivo, ma un assai men modesto depensamento. “
Ora sto rassegnato alla terapia cioè ‘una buona dose di rassegnazione vale per affrontare il viaggio della vita’“, si legge nel manoscritto vergato da una mano decisa. E non occorre scomodare Foucault né Dino Campana.