Realtà diverse, spazi tra loro assolutamente divergenti, curatele separate, una concomitanza fatale ma apparentemente nemmeno troppo insistita. Sono due gli spazi che Bergamo riserva a
Jannis Kounellis (Atene, 1936; vive a Roma), per la costruzione di un’esperienza site(s) specific che si protrarrà fin dopo l’estate. Da una parte gli ambienti della Galleria Fumagalli, interpretati con una spazialità da caveau; dall’altra l’ex Oratorio di San Lupo, chiesa-teatro reinventata e consegnata alla contemporaneità.
C’è un filo rosso, o meglio: c’è un filo di feltro nero a legare le due installazioni, a costruire una muta conversazione a distanza. C’è il ritorno alla poetica dei cappotti, ormai vere e proprie
animulae; c’è l’ulteriore approfondimento del tema uomo, indagine su espressività, libertà, capacità comunicativa.
Introduzione da Fumagalli: una parete (quanto? Dieci metri per tre?) di cappotti appesi a ganci da macello. Uomini come quarti di bue portati dallo stesso Kounellis a Barcellona (era il 1989); uomini inermi come polli spennati che occhieggiano, spenti, dalla vetrina di un negozio. E poi, al piano inferiore, ancora cappotti: a coppie, inchiodati a lastre di metallo di quattro metri per due, ognuno bloccato da un’ulteriore lastra sovrapposta. Oltre venti sandwich di panno e ferro, grida ammutolite; l’insistita ripetizione della parola negata, la creazione di un lapidario contemporaneo.
Ed è proprio nel suo carattere sepolcrale che l’intervento in galleria trova il punto di maggior tangenza con quello all’Oratorio di San Lupo. Dove circa quaranta cappotti (e relativi cappelli di feltro in stile Beuys e coppie di scarpe) si stendono a terra, protetti dall’ombra di una croce contemporanea, con putrelle di metallo a sostituire i bracci di legno. La rievocazione di un cimitero ordinatamente scomposto, forse più affine in termini di potenza comunicativa e visionarietà alla cultura ebraica che a quella cristiana.
“
Oggi l’arte sacra non esiste”, scriveva Gillo Dorfles in
Le oscillazioni del gusto, ed era il 1970. “
Questa non è che una constatazione, né la Chiesa è in grado di porvi rimedio”. Kounellis oggi risponde con un lavoro che già si dice propedeutico a un suo intervento alla Biennale del 2011, nei fin d’ora chiacchieratissimi spazi del Padiglione voluto dal Vaticano. La riflessione è aperta: quale arte, oggi, per quale sacralità?
A compendio della mostra, una profonda intervista all’artista, proiettata nella cripta di San Lupo. Un monologo, a dire la verità, nel quale Kounellis difende la dimensione intimista della religiosità e rifiuta il dogmatismo; costruisce paralleli formali sul senso della verticalità di un
Pollock e di un
Caravaggio; si spinge fino a individuare nei tagli di
Fontana una metafora delle ferite nel costato del Redentore e, a proposito, chiude rivendicando come “
ci sia un Cristo per ogni artista e un artista per ogni Cristo”. Ribadendo l’esclusività e l’individualità del rapporto tra umano e divino.