Ogni mostra di
Mark Tobey (Centerville, 1890 – Basilea, 1976) dovrebbe porsi l’obiettivo di evidenziare l’unicità della sua poetica, distanziandola dall’omogeneità più o meno autoimposta di movimenti come l’Espressionismo astratto. Banalizzante appare anche la definizione, per quanto storicamente esatta, di capofila della Scuola del Pacifico, mentre affinità maggiori nascono da un accostamento con le tendenze dell’Informale, che indubbiamente Tobey influenzò.
Evidenziare l’unicità, dunque: la mostra da Agnellini ci riesce bene, anche grazie a un catalogo esaustivo e dal taglio scientifico, come già era accaduto per la precedente mostra di
Villéglé. Quattro punti rendono unico Tobey: nessun vitalismo risiede nella sua opera, distante perciò da ogni pittura d’
azione. La
hybris dell’artista è calmierata da uno spiritualismo che è piuttosto ricerca di unità universale. Il suo tessuto di forme si allontana dalla scrittura pura e presenta una “impalcatura” che riproduce la concrezione del mondo e della luce, invece di organizzarsi esclusivamente come piano concettuale astratto.
Il totemismo, infine, lo avvicina all’Espressionismo astratto, ma anche qui una più sincera vicinanza alla cultura orientale lo spinge a un calligrafismo non aggressivo, e la figura totemica non si erge eroica, ma si propone quasi dissimulando la sua presenza nello spazio circostante.
Il percorso espositivo, come detto, riassume molte di queste caratteristiche, con un inizio eccentrico: la fase figurativa di Tobey, rappresentata fra l’altro da
Natura morta su un tavolo (1930 ca.) –
esempio d’inventiva e autonomia di stile, pur nella rivisitazione di correnti pittoriche preesistenti – e dal carboncino su carta
Man with closed eyes (1925).
Una selezione di disegni e studi conducono poi (saltando la fase della “scrittura bianca” degli anni ‘30) alla poetica più nota dell’artista, in cui il bianco si alterna e s’interseca al colore, la ritmica musicale all’indagine della natura e a forme più propriamente astratte.
In mostra anche alcuni dei
Sumi del ‘57, disegni a inchiostro eseguiti secondo la tecnica giapponese del
sumi-e, oltre ad alcune vetrate del 1970 circa, in cui il segno magmatico si stabilizza, ispessendosi e cedendo il compito di generare feconda instabilità al colore e alla luce che lo attraversa.
La rassegna giunge fino al 1974, dando una buona idea delle varie fasi creative di Tobey, anche tramite opere minori. E se l’allestimento a quadreria della seconda sala risulta un po’ penalizzante, la mostra nel complesso e il catalogo denotano sicuramente un approccio rispettoso della storia e dell’artista, differenziando la Agnellini da molte altre gallerie che si occupano di moderno.
La parola passa ora alla Galleria Blu di Milano, che ospita una personale dell’artista, con venti opere dal 1953 al 1972.