Dopo Tigri di luce, serie fotografica dedicata alle nuove megalopoli asiatiche in cui città come Hong Kong, Shenzen, Singapore, Shanghai, Bangkok e Kuala Lumpur venivano raccontate nei loro contrasti più drammatici -con uno sguardo diverso sia da quello del reportage che della fotografia di architettura- Peter Bialobrzeski (Wolfsburg, 1961) presenta una selezione da Heimat. In questo ciclo, pubblicato nel 2005, lo scenario metropolitano lascia il posto ad un paesaggio dal sapore vagamente romantico. Le fotografie, che a prima vista sembrano dipinti, testimoniano la possibilità di un pacifico rapporto e di un dialogo silenzioso tra uomo e natura. Nei paesaggi sconfinati di Heimat, infatti, è sempre presente la traccia dell’uomo che, sebbene sia ridotto a minuscole figure difficili da riconoscere nel dettaglio, si confronta con il paesaggio trasformandolo in un’immagine soggettiva ed emotiva.
L’artista non vuole consegnare allo spettatore il ritratto oggettivo della sua nazione: Heimat, che deriva dal tedesco hein, ossia casa natale, rappresenta la terra d’origine e non la patria ufficiale. Bialobrzeski, infatti, ferma in una dimensione di sospesa tranquillità quello che viene percepito come il luogo degli affetti, il posto dove ci si sente più a casa. Più che un paesaggio, l’artista fotografa uno stato d’animo, fatto di immagini luminose e abbaglianti, in cui la natura si dispiega in tutta la sua potenza nel susseguirsi delle stagioni e dei cambiamenti atmosferici. Le persone ritratte sono colte in quei momenti di riposo che oggi sono divenuti sempre più indispensabili per evadere da una vita quotidiana sovraffollata e claustrofobica. Ricercano libertà e tranquillità per opporsi alla frenetica realtà di tutti i giorni, rifugiandosi in spazi dove lo sguardo può correre libero e appropriandosi di un luogo in cui far dimorare la propria intimità. Bialobrzeski, in realtà, invita il pubblico a un viaggio interiore in cui poter liberare i propri sentimenti e il proprio immaginario.
Non più l’incubo fantascientifico di Tigri di luce, ma un paesaggio divenuto metafora di un ideale assoluto fatto di quiete interiore. L’uomo riesce di nuovo a stabilire la comunicazione con lo spirito più profondo della natura: è quasi uno stato di empatia in cui il fluido effetto di luce, creato dall’andamento sinuoso e avvolgente del paesaggio, come anche dalle sue improvvise increspature, si unisce alla linea che segna l’orizzonte, suggerendo così un percorso simbolico variabile che si manifesta silenzioso nella terra, nel movimento fluttuante dell’acqua, tra le vibrazioni impercettibili dell’aria. Per alludere a un qualcosa che va il visibile.
veronica pirola
mostra visitata il 27 marzo 2007
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