Sapessi come è strano vedere dell’acqua colorata a Milano. In strutture cilindriche di vetro, con colori accesi, colori pop. E se poi si guarda in fondo, giù giù attraverso il liquido, si scopre un mondo sommerso, un tesoro nascosto. Un’anfora a metà tra il reperto archeologico e l’immaginario favolistico dei relitti delle navi.
Sono le opere scultoree di Katia Orgiana (Genova, 1971), in mostra in un progetto site-specific nella nuova doppia personale alla Aus 18, con la curatela di Chiara Canali. Accanto, un’altra giovane artista –Barbara Mezzaro (Albenga, 1973)- interviene con una serie di scatti fotografici di stralci urbani a bagnare d’acqua la visione d’insieme, a rendere liquida e appannata la prospettiva. Waterstream è il flusso dell’acqua, il suo scorrere continuo. È quel lasciare una patina semi-trasparente che rende
Katia Orgiana riprende il filo della propria ricerca scultorea con la produzione del Deserto delle Anfore, una serie di profili vascolari in ferro emergenti a metà da una superficie piatta (sabbia, acqua, terra?) che lasciano aloni vagamente lunari, minimal e antichi allo stesso tempo. Ma questa volta l’artista ha deciso di introdurre una novità assoluta, di aprire un nuovo corso di sperimentazione immergendo queste strutture modulari in liquidi simili a detersivi, arancio, azzurri, verdi, viola (cinque “vasche” di cristallo e cinque diversi colori). Raggiungendo così un risultato di intrigante vedo-non vedo, di immersione e sommersione esteticamente piacevole e simbolico. Ma è soprattutto con l’installazione video-scultorea preparata per lo spazio espositivo che prende pienamente forma sensoriale il concetto dello scorrere dell’acqua, dello sciabordio di un fiume sulle pietre, o di un’onda che si infrange sulla spiaggia. Si cammina sulla superficie lunare di anfore, e ci si trova di fronte ad una cascata d’acqua fissata dalla video- proiezione.
Accanto, la serie di scatti fotografici di Barbara Mezzaro, riprendono ancora una volta il tema dello scatto urbano notturno, del profilo di un grattacielo. Ma lo fanno in una prospettiva nuova e particolare, quella stessa visione liquida e gelatinosa che si accompagna ad un ambiente acquoso. Nei light-box dell’artista le linee architettoniche riprese da tagli geometrici e bassi si sciolgono in visioni sottomarine, come attraverso la superficie di una patina d’acqua. O attraverso il filtro di un sogno. Un colpo di luce qua e là dato dall’obiettivo getta ancora più nell’ombra il resto dell’immagine, la scurisce, la affonda, la inquieta. Ma soprattutto la priva di concretezza e di presa sul reale. Se in un primo momento la visione d’insieme sulla galleria non è di immediata coerenza, diventa a poco a poco piacevole scoprire il flusso che lega i lavori, la sommersione visiva e sonora che dà l’idea comune dell’acqua.
Ed è interessante scoprire come l’elemento primario per eccellenza possa essere simbolo di leggerezza, di mollezza, di fluire continuo di tempo e memoria: anche e soprattutto a livello visivo.
barbara meneghel
Mostra vistata l’8 maggio 2007
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