Compulsando le dense pagine vergate da filosofi e letterati nel corso dei secoli, s’intuisce che in fin dei conti un rapporto sussiste, fra bellezza e morte. Quale, non si sa. Il valore semantico della bellezza, del resto, è assai votato alla precarietà. Forse fu Petrarca ad avvicinarsi maggiormente alla verità, quando si riferiva alla bellezza nei termini di un certo-non-so-che (
nescio quid, secondo i latini; ma i francesi sono insuperabili:
je ne sais quoi).
Javier Pérez (Bilbao, 1968; vive a Barcellona) giudica superfluo il contraltare critico-ermeneutico del suo lavoro, in quanto ritiene egualmente legittimabili nel loro valore interpretativo le glosse puramente soggettive dell’osservatore, pur privo della patente di critico.
La sua personale nello spazio espositivo di Scognamiglio a Milano è una mostra ben ordinata, incentrata sul tema degli opposti, ma senza sintesi hegeliana. Anche se alcune opere di Pérez sembrano la ripetizione di concetti già espressi altrove, nel complesso si tratta di lavori dal retroterra concettuale piuttosto interessante. Si veda per esempio il carillon di dolore di due scheletri abbracciati in una
danse macabre, sospesi su una superficie a specchio che riflette il volto di chi guarda. Ebbene, cent’anni fa sarebbe stata l’opera degna del frontespizio di un’edizione pregiata di uno scrittore
maudit; ma oggi, quando una non piccola porzione della giovane e meno giovane arte civetta con la morte, sa di scontato.
Stessa impressione suscita il crine di cavallo di cinque metri disteso sulla parete della galleria, in riferimento al quale le armonie con il lavoro di
Christiane Löhr sembrano tutt’altro che recondite. Idem, ma con diversa motivazione, per quanto riguarda le stampe in digitale, pericolosamente vicine ai supporti patinati dell’advertising: opere che, attraverso un sagace
trompe l’œil, trasfigurano percettivamente le cavità dell’essere umano su cui scorre un rivolo di sangue. Insomma, i freudiani eros e thanatos.
Molto potente invece l’enorme rosario in resina e ferro, attorcigliato sul pavimento dello spazio espositivo, i cui semi sono rimpiazzati da neri teschi.
Memento mori, “ricordati che devi morire”.
Javier Pérez è anche un bravo acquerellista: raffigura soggetti umani privi di epidermide, li battezza “penitenti” e li dipinge su una superficie di pergamena che evoca per reminiscenza proprio la pelle. E quando Pérez fa una scultura di crisalidi, dandovi la forma di un abito, sotto cui si raccoglie una macchia che sembra
il sugo della vita, il pensiero corre a Hannibal the Cannibal. Nonché a un
Grand Guignol di
Hermann Nitsch.
Nota dominante di questi lavori è l’assenza dell’identità: surdeterminata, sempre. Non si dice che la morte non guardi in faccia a nessuno?