Date peso ai vostri passi. Respirate cauti. Fatevi piccoli. Poi curatevi che nessun altro, nessuna presenza molesta sia in stanza con voi. Dunque, siete pronti per introdurvi e addentrarvi. Entrerete in una stanza buia, a diretto contatto con la corte di cemento grigio della Fabbrica del Vapore. Ma dimenticatevene. La fabbrica e i suoi rumori, i suoi ritmi ciclici, le sue gabbie improvvise e le inspiegabili simmetrie stanno per fare ritorno sotto altra forma. Le generalità dello spaesamento stanno per passare, assieme al vostro ingresso, dall’esterno verso l’interno. Dall’aria accesa del sole alla cecità della costrizione. Nel segno di un mondo perduto, dove né il ricordo né la caducità della memoria si legheranno più ad alcuna rappresentazione del quotidiano. E delle cose che a esso fanno capo.
In
Lost Dreams, infatti, l’installazione di
Andreas Golinski (Essen, 1979; vive a Milano), opera uniformante e teatralizzante della geometria labirintica, respirerete lo spazio sottratto. Quel luogo che l’artista designa come definizione negativa della progressione alienante, come emancipazione formatasi nel residuo del processo di produzione.
Se cercare di scoprire gli intenti delle architetture, al di là delle catene simboliche di rimando, sembra difficile, allora guardatevi bene intorno. Spinti dall’angustia dell’invalidità, guidati da e verso il vuoto orizzontale, attraverserete, percorrendo alla sola luce di alcune lampadine, una struttura formata da corridoi incastrati. Una di quelle costruzioni concentriche, strozzate sul loro fine e chiamate per comodità
labirinto.
I muri, in questo breve e angusto percorso, termineranno poco sopra la vostra testa, innalzandosi lungo i vostri fianchi e stringendovi sempre più, fino a ridurre il vostro corpo alla completa, rumorossisimma e fastidiosa cattività. Chiusi e circondati da frangisole di scarto, vi troverete infine assemblati da e con le assi di pallet. State pronti a sentirvi come spettatori
usati, visitatori visitati e menti da utilizzo; oasi umane adatte a sperimentare l’esperienza del trasporto ferroviario, in qualità di merci e bancali.
Golinski, infatti, impilando gli assiti realmente utilizzati come imballaggio (quelli realizzati con legno chiaro e marchiati a caldo con codici incomprensibili), incastra una struttura che conferisce leggerezza al volume degli spazi, facendo sì che il senso di occlusione avvenga attraverso un filtro. Attraverso cioè un rilascio lento e balsamico della sensazione di transito, di passaggio scavato e compiuto dentro un interno.
Quello che maggiormente incuriosisce di
Lost Dreams, di questa insensibilizzante gabbia percettiva, è quindi l’instabilità. È il disequilibrio a tratti prevedibile e di lieve maniera boltanskiana che la geometria architettonica dell’installazione lascia addosso. Ora dopo ora dopo ora. Ben oltre l’uscita da un luogo fatto per non trovarsi più.