Che fine fanno gli oggetti di ogni giorno, quando poi vengono riassemblati nei sogni di
Gabriele Picco (Brescia, 1974; vive a New York e Brescia)? Finiscono in quella zona, tra luce e ombra, dove la regressione delle immagini si libera dall’alfabeto della realtà e scivola verso l’indifferenziato dell’immaginazione. Verso quel cono senza fondo nel quale tutto il contorno materiale e la struttura delle cose comincia a muoversi e a deformarsi, producendo una sorta di racconto allucinato, provocato dalla a-sequenzialità originaria degli oggetti in mostra.
Né sculture né installazioni tridimensionali,
Il coltello nell’acqua e
Everyday a Sunday sono come pareti che si contraggono e si spostano, in moti di diastole e sistole. All’interno di questi diorama in libertà, a pelo libero sul
repêchage, tutto entra in relazione con le forze. Perché in sospensione, tutto è forza.
Quel che spesso costituisce la deformazione e la sostituzione formale della materia, in scultura diventa un atto a lungo termine, un riposizionamento che influisce sulla verità della rappresentazione e sulla natura tridimensionale di occupazione dello spazio.
Ma nelle sculture non-sense di Picco, per la sua seconda volta con una personale da Francesca Minini, la forza non si lascia condurre a una trasformazione della forma né a una scomposizione degli elementi. I raccordi della follia, visibili come assemblaggi di elementi stranianti, nelle opere in mostra sono talmente uniti fra loro che portano lo spettatore a credere di trovarsi impastato in quel che vede. Catturato, anche se libero di uscirne, chiuso all’interno di un mondo dall’apparenza coesa e indiscernibile.
Attraverso i quattro video si comprende anche l’uso che l’artista fa del vero. Riuscendo a spiare con chiarezza quando la sua immaginazione trova il momento e l’intenzione di provocare, uscendo dalla vita delle banalità. Quando, cioè, dalle mani e dalla giornata dell’artista scaturisce il tempo di dare il la alle deformazioni, nascoste dalla normalità e sbriciolate in tanti pezzi di verosimiglianza. Queste trasformazioni, inflitte e operate sull’incredibile del mondo, non sono altro che cambiamenti imposti o forzati.
Nonostante l’apparenza esplicitamente esotica, non rappresentano mai delle torture per le cose. Al contrario, le posizioni più naturali dell’essere, come gli strati di
Chips endless column sembrano quasi chinarsi, oppure sollevarsi di un poco, spinte dalle citazioni di patatine fritte che scimmiottano
Brancusi e che, in realtà, si accartocciano come tanti piccoli fogli in fiamme al di sopra della testa dello spettatore.
In ogni lavoro, sul bilico tra naturale e artificiale, i disequilibri dell’artista bresciano assumono le posizioni istantanee di corpi che si raccolgono in funzione della forza semplice, oggettiva, agìta su di loro. Benché, in questa personale, la forza di gravità scansi qualsiasi voglia o desiderio che non sia la deformazione degli oggetti, presi e messi a significare altro, questo “altro” emerge rapidamente, attraverso la creazione di un processo statico che promuove la dolcezza della forma a riposo.