Più che di naïf o di primitivismo bisognerebbe parlare di pittura sincera per le oltre 250 opere di
Antonio Ligabue (Zurigo, 1899 – Gualtieri, Reggio Emilia, 1965) esposte a Palazzo Reale. Non mancano ombre, prospettiva, uso sapiente del colore; soprattutto nei disegni su carta da musica, terreno di prova per l’elaborazione di un personale giardino dell’Eden, si coglie lo studio attento dell’anatomia animale.
Del bambino rimangono lo sguardo limpido e l’assenza di vergogna per ciò ch’è naturale: la bellezza delle piante dalle foglie rilucenti, dei manti striati o maculati dei grandi felini, senza negare i temporali che s’abbattono sui campi o i ragni e i serpenti mortali anche per le bestie feroci. Persino la giungla più intricata ha colori brillanti, come potrebbe immaginarli un ragazzo non ancora consapevole della densa umidità e del buio conradiano.
A questa visione Ligabue aggiunge una naturale sensibilità e un vocabolario artistico non erudito ma studiato, che si manifesta talvolta in richiami espliciti alla storia dell’arte:
Le due madri (una donna e una mucca) riproduce l’omonima opera di
Segantini, mentre richiama
Dürer La lepre dal manto screziato. Esemplare soprattutto per la disposizione degli elementi figurativi nello spazio è
Leopardo con serpente, in cui ogni cosa prende forma serpentina, dai rami che han braccia come se stregati, alla coda del leopardo incurvata e innalzata anch’essa come un serpente pronto ad attaccare.
Di fronte a tigri e leopardi impennati, a babbuini, ragni e serpenti si sente una donna dire a una bambina: “
Vedi, questo pittore è morto, ma è come se ancora vivesse, perché sono vive le opere che ci ha lasciato”. Non occorre però addentrarsi in una selva per percepire un intenso dinamismo, basta osservare, in
Ritorno dai campi con i buoi, uomini e animali che cercano di sfuggire al temporale imminente, mentre un vento contrario agita l’erba e le piante.
Nonostante il moltiplicarsi di quadri sullo stesso tema induca a parlare di ripetizione seriale, basta il mutare dei colori, dello spessore delle pennellate, della disposizione dei soggetti per convincersi che le giornate nei campi sono sempre diverse. Il pittore comunica un’altra verità di natura presentando, dopo numerose volpi con pollame tra le fauci, altre assalite dai rapaci, vendicatori inconsapevoli dei propri simili più deboli. Ligabue non loda e non denuncia, tutt’al più cede all’ironia, ritraendo un Napoleone che ha il suo stesso volto e un ronzino grigio e sfiatato al posto di un bianco destriero.
Nell’ultima sala il pittore non si maschera, ma ripropone il suo volto in una miriade di espressioni, rabbiose o sofferenti, sicure, spavalde oppure incerte, ma che sembrano sempre ricercare un contatto e chiedere al visitatore il proprio parere.
La risposta è racchiusa forse nei volti sorridenti e nell’affollamento del ricco e non esoso punto vendita.
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Avvicinare la lontananza
Esotiche tigri e velenosi serpenti vengono raffigurati da Ligabue nello spazio familiare della sua campagna entro i suoi contorni domestici. Così riesce a riportare le lontananze di altri continenti nel suo spazio usuale e conosciuto esorcizzando così la paura per ogni lontana diversità.
Doppio autoritratto
Quando Ligabue si ritrae quasi a mezzo profilo lo vediamo chiuso, corrucciato e introverso ma poi si raffigura anche nell'urlo delle tigri che appaiono terrifiche perché temono di essere aggredite. Così in questo doppio autoritratto l'artista si mostra nella duplice valenza di introversione e pulsione aggressiva: due componenti correlate dell'animo.