Lo specchio è per antonomasia ciò che s’interpone fra noi
e la sfera dell’immaginario. Se l’immagine riflessa è a tutti gli effetti una
riproduzione speculare della realtà, ci si chiede allora quanto autentica e
reale sia la superficie specchiante. E a interrogarsi, domandandosi anche cosa
vi sia al di là dello specchio, è
Philipp Fürhofer (Berlino, 1982).
Al suo debutto italiano, il giovane tedesco mette a punto
una serie di lightbox e installazioni che, a prescindere dai mezzi impiegati o
recuperati, riflettono sulla pratica della pittura. Perché, dal titolo della
personale
Life Is Out There, proprio là fuori si trova la natura, la vita. E la
pittura sembra caricarsi di tale vitalità solo quando si accende. O, per meglio
dire, quando s’infiamma, se pensiamo a
Contranst Medium, l’installazione pittorica
presentata all’Accademia di Brera.
Su una grande tela, violenta e intensamente poetica, la
retroproiezione in loop di un incidente aereo restituisce il respiro della
figura distesa. È
solo il dolore senza sonorità di un’esplosione a far pulsare
il soggetto statico della pittura.
Contrast medium è letteralmente anche il mezzo di
contrasto utilizzato nella diagnostica radiologica: sostanze iniettate nei
tessuti che, nell’indagine a raggi X, ne modificano il colore, permettendone lo
studio e l’analisi.
E, metaforicamente su questo principio, l’artista realizza
le sue “installazioni di luce” esposte in galleria. Rivestiti da
spy mirror, una pellicola argentata
specchiante, i lightbox – a seconda dell’illuminazione – mostrano la loro
doppia natura, consentendo allo spettatore di essere nell’opera o di vedere
dentro il quadro stesso. Nella sua essenza.
La ricerca di Fürhofer sui materiali e sugli effetti
ottici deriva dalla sua esperienza di scenografo nei teatri di Zurigo e
Berlino, dove l’artificio e la natura s’incontrano, concretizzandosi sulla
scena. Abituato quindi a lavorare su grande scala, quasi come eco della poetica
del sublime della tradizione romantica tedesca, l’artista sfida il grande box
di vetro situato nel cortile della galleria milanese.
Interpretato in modi differenti dagli artisti che lo hanno
preceduto (
Sarra,
Delafon,
Tealdi), il box si presenta come
showroom delimitato da due pareti in muratura e da due vetrate che corrono da
pavimento a soffitto. Per Fürhofer diventa un cubo di ghiaccio nell’atto di
sciogliersi, sul quale dipinge una cupa foresta nei toni scuri del verde e del
grigio. È un pezzo di natura in disfacimento, che svela il suo contenuto: un
groviglio di cavi neri con lampadine che ricorda inevitabilmente l’ossatura di
alberi bruciati. Le vetrate, con lo spegnimento delle lampadine, da trasparenti
diventano riflettenti, mostrando solo la superficie pittorica, apparentemente
ancora fresca e colante.
Nell’opera la luce diventa allora sia forza distruttiva,
che causa lo scioglimento del ghiaccio, sia forza generatrice, che rende
visibili le cose. Come il fuoco e la distruzione-creazione di un mondo.