Contro il destino ineluttabile di
Crono, che divora tutto ciò che ha generato, non si può nulla. Solo la lama
costantemente affilata dell’arte e l’ingegno della sua inquietudine possono
lanciargli una sfida, mescolando tutte le sue epoche e riuscendo persino a
fermarlo.
Nicola Samorì (Forlì, 1977; vive a Bagnocavallo,
Ravenna), nella personale milanese dedicata a
La dialettica del mostro, minaccia di nuovo le
sedimentazioni della storia, ritornando irriverente sulle cose selezionate dal
tempo. Guarda, indugia, scarta, sceglie, replica e poi va dentro con tutto il
corpo. Con la rabbia di chi vede oggi la pittura arrancare, smarrita in un
deserto di simulacri. La mutabilità del passato sembra divenire il suo cruccio,
graffiando, cancellando, scorticando, amalgamando i vivi coi morti.
Il titolo è preso in
prestito da una definizione dello storico dell’arte
tedesco Aby Warburg, che fa riferimento alla capacità che hanno alcuni uomini
di tenere a bada i propri mostruosi demoni con il pensiero. Riuscendo quasi a
mantenere, attraverso una loro oggettivazione in immagine, quella sana distanza
con cui difendere il proprio equilibrio psichico. Ma l’artista sa bene che
l’orrore è lì e nessun ordine imposto dovrà più nasconderlo. Neppure una
bellezza adagiata e riconosciuta, ora liberata da percorsi di logica nel
tentativo di ridare assetto a gesti istintivi, collaudando forme nuove.
C’è un
secolo che più di tutti si presta a questi esperimenti: quel Seicento
napoletano grondante di materia e forma, luccicante di luce e intriso di
silenzioso buio. E c’è un artista che Samorì predilige e ricopia: quel
Jusepe
de Ribera, spagnolo di nascita e napoletano d’adozione, che offre coi suoi
mostruosi ma naturali valori imperfetti un terreno da rivangare continuamente.
“
È come poter disporre di un pezzo appena ultimato dal pittore”, confessa l’artista,
“
e intervenire sulla materia fresca della pittura apportando quelle che
Moreni chiamava pennellate sbagliate, gesti liberi impensabili a quel tempo”.
Riattivando,
così, corpi passati in memoria, lavorando sulle teste, stracciandole,
scrostandole col raschietto fino a farle cadere penzoloni. Come la larga lingua
bianca di
Scuola italiana. O anche rendendo visibile l’incertezza delle
cose mentre accadono, come la figura del Santo Eremita arroccato nel suo
Buenretiro,
che è ripresa in
movimento, come una foto sfocata o una riproduzione scannerizzata male. E pare
che sia andata proprio così…
Dipinti ma
anche sculture, che spesso l’artista ricalca e poi deforma per far allontanare
la mente dalla memoria dell’originale. Samorì parte sempre dal passato, dalla
perfezione dei grandi maestri per ritornare sui loro corpi, manipolarli,
camuffarli per simulare ciò che non è e rivelare i punti di contatto che la
storia non ha voluto far incontrare.
Veri e
propri tradimenti che scuotono l’osservatore e si colgono solo a un secondo
sguardo. Grazie a un talento innato e a una tecnica del tutto personale,
impiastricciata e precisa, esplorativa e alchemica, segreta e folle.