Il segno che diventa linguaggio; il mondo della riproducibilità tecnica che diventa arte e, ancor più, mito. E il linguaggio, che viene inesorabolmente privato della propria chiarezza, diventa evocazione di tempi e luoghi lontani, eco rarefatta di esoteriche visioni e nuovi simboli.
Ezio Gribaudo, dopo le prime mosse dall’Informel -come l’aveva definito il suo amico e sostenitore Michel Tapié-, vince la XXXIII Biennale di Venezia nel ‘66: è il momento della consacrazione. Meno di dieci anni prima aveva iniziato con opere-omaggio ai grandi artisti come
William Turner, con evidente richiamo coloristico all’“
incendio della camera dei Lord e dei Comuni”, e
Lucio Fontana, oltre che alla città di New York, che lo ha ospitato più volte nella sua carriera.
Per Gribaudo, il colore è materia e la materia è colore. L’artista reinterpreta in diretta il mondo tecnologico che vede crescere ed evolversi davanti a sé. Nascono così i
Flani, impronte di pagine de “La Stampa”, da buon torinese, un nuovo ready made tipografico che farà sussultare Pierre Restany. La riflessione sul linguaggio e sulla comunicazione si allarga a nuove esoteriche creazioni chiamate
Logogrifi. Non si tratta di fantascienza, ma letteralmente di “discorsi-rete da pesca” che si concretizzano in polistirolo (alla fine degli anni ’60, materiale nuovissimo e industriale per eccellenza)
e in raffinato legno di tiglio intagliati da sinuose andature, linee guida per la più misteriosa caccia alle risposte dell’uomo moderno nella giungla dei nuovi media.
È filosofia quest’arte di Gribaudo, pronta a stupire e sempre divertente: dai raffinati
Metallogrifi del 1970, colate di materia nelle quali collage e combustione creano un effetto post Big-Bang, si passa alla serie dei
Dinosauri, nei quali l’artista gioca a dipingere i giganti del passato con colori sgargianti e pose naïf. Straordinari infine i
Teatri della Memoria, pagine criptografate di storia del pensiero, stralci di vita attraverso la memoria, metonimie dell’immaginazione. Opere dall’impronta alle volte fiabesca, racconti misteriosi e magici che altro non sono che una summa delle esperienze sinora raccolte dall’artista.
Hanno una data significativa queste opere, compresa tra la fine degli anni ’60 e il nuovo millennio, nel trattino che le divide, sipario di una vita, il palcoscenico del teatro che è stata l’arte in tutte le sue forme: semantiche, tecniche, estetiche, ma anche sogno e puro spirito. Ecco ricomparire quindi i flani, i logogrifi, il collage dei metallogrifi che qui sì, davvero, sembrano creature uscite dalle cronache di un mondo fantastico, a ricomporre la visione dell’artista.
Tutto questo a Lissone, cittadina con la quale Ezio Gribaudo ha un legame profondo: nel 1961 lo vide tra i nomi della “
sezione informativa sperimentale dei giovani artisti italiani” del già internazionale Premio Lissone. Un’edizione nella quale erano presenti
Fautrier,
Burri, Fontana,
De Kooning,
Klein,
Rauschenberg,
Pollock…