Un inferno, con vista sul paradiso. È il personale universo di
Jan Saudek (Praga, 1935), al cui centro si muove l’uomo con le sue pulsioni, ambigue ed estreme. Gioia di vivere, fobia della morte e solitudine; esaltazione della carne e angoscia del decadimento fisico. Il percorso della mostra, a cura di Enrica Viganò, ci cala in una dimensione narrativa che scava nei meandri dell’animo umano. E svela una realtà interiore ed estraniante, costruita minuziosamente dall’artista, che per l’occasione diviene regista, truccatore e scenografo delle sue stesse fotografie.
Anche il tempo segue la volontà del creatore Saudek: tutte le immagini, artificiosamente retrodatate, riportano alla Praga simbolista di fine Ottocento, un tempo remoto, e ora vissuto con nostalgia. La finzione pervade anche la resa, e gli tutti gli scatti, in bianco e nero, sono dipinti con cromie acide e acquose, quasi fossero manifesti di un cabaret
fin de siècle.
Del resto, la tecnica è quella in voga nei primi decenni di vita della fotografia, il pittorialismo. Che ora diventa segno di una compiaciuta regressione temporale, una bella confezione che racchiude le immagini. I colori vaporosi e perfetti sfumano nel fondo cieco, umido e scrostato che fa da retroscena a quasi tutte le composizioni. È il muro della cantina in cui l’artista iniziò a lavorare le sue prime opere e che nel tempo è diventato sua inconfondibile cifra stilistica.
Gli interni di Saudek, claustrofobici, ben raccontano la sua esperienza, prima deportato ad Auschwitz e poi censurato dal governo comunista cecoslovacco. Le sue immagini sono dense e coinvolgenti, e in fondo inquinate da un sentore oscuro di morte, ora latente ora manifesto, che affascina lo spettatore. Certo, si tratta sempre di una morte lirica; sublimata attraverso composizioni di solenne classicità, con frequenti incursioni nel mito stesso.
Protagonisti e complici della complessa regia, i soggetti ritratti e i loro corpi virulenti e seminudi. In loro Saudek non cerca la bellezza ma l’imperfezione, talvolta persino lo strazio fisico. Il diverso, che proprio per la sua differente esperienza di vita sembra avvolto in un’aurea spirituale.
E sulla scena si vivono pulsioni estreme, provocanti: nell’erotismo ostentato delle pose o nel volto esasperato di una donna che ti guarda negli occhi, un attimo prima di togliersi la vita. Se
La ragazza slava con suo padre raffigura passioni incestuose,
Ida come una carta da gioco è insieme king e queen. O la
Maternità che allatta una bambola diventa simbolo dell’impossibilità per l’uomo di realizzarsi in modo autentico.
Ma ogni messa in scena è solo una parte dell’atto, che si completa nella totalità della mostra. All’interno degli spazi espositivi la narrazione incalza, rafforzata da una certa propensione del fotografo a costruire sequenze. Le immagini vivono in ogni millimetro: forti e vivide ritraggono figure sanguigne. Ora in modo ironico, ora grottesco, ora gioioso.