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21
aprile 2008
fino al 27.IV.2008 Joel Peter Witkin Milano, Pac
milano
Un gioco continuo al ribaltamento e alla doppiezza, alla demolizione dell’ordinario. Il deforme come normale, il mostruoso come accettabile, il perverso come abituale, un morto come un compagno di viaggio, un modello ideale. Fino a sublimare la provocazione in fascinazione...
Una bomba nella casa di Nonna Speranza. È questa, a ben riflettere, l’impressione che resiste nella mente dopo aver visto le immagini di Joel Peter Witkin (New York, 1939). Perché è giusto tutto quello che la critica sostiene quasi in coro, quando parla di opere inquietanti, provocatorie, dissacranti, in qualche caso persino raccapriccianti.
Però la sensazione persistente è che queste foto potresti immaginare di trovarle sul trumeau dei salotti borghesi tratteggiati in punta di penna da Guido Gozzano, a fianco di un ritratto dagherrotipo di W.S. Hartshorn. E questo non soltanto per i toni seppia, per la materia a volte sgranata, per certe posture scenografiche dei personaggi, per i damaschi, i broccati e le acconciature Belle Époque che vi abbondano.
È da qui anzi che comincia la demolizione dell’ordinario, il gioco continuo al ribaltamento e alla doppiezza messo in atto da Witkin. Presentare il deforme come normale, il mostruoso come accettabile, il perverso come abituale, presentare un morto come un compagno di viaggio, un modello ideale. Davanti a queste foto sul nostro immaginario agisce quello che Walter Benjamin, nella sua lungimirante Piccola storia della fotografia, definì “inconscio ottico” e che riesce a farcele vedere con gli occhi del loro creatore.
La morte è per lui il continuo specchio, e su questo incide certamente la sua esperienza nella guerra del Vietnam, cui ha preso parte fra il 1961 e il 1964 come reporter, spesso portato a maneggiare cadaveri per un ultimo scatto, fino a considerare la morte come un evento della quotidianità. Un nuovo ribaltamento: davanti alle note teorie di Susan Sontag -“ogni fotografia è un memento mori”, ovvero l’idea che la foto, bloccando l’attimo, lo “uccide”-, Witkin mette direttamente la morte davanti all’obbiettivo. Le sue minuziose scenografie sdoganano nel consueto tutto ciò che abitualmente tendiamo a respingere. La morte, appunto, ma anche l’imperfezione, la deformità, la deviazione, la caducità corporea.
Il risultato è che troviamo affascinante un cadavere visibilmente reduce da autopsia (Glassman, 1994), “allestito” in una posa che richiama un San Lorenzo sulla graticola, o un Cristo alla Colonna, magari di scuola veneta. O che ci ritroviamo coinvolti ma non turbati dal ribaltamento in chiave transgender del mito di Leda e il cigno. O, ancora, intrigati dalla natura morta caravaggesca, dove il cesto lascia il posto a una testa acconciata a portafrutta.
L’ultimo ribaltamento? È il più scioccante. Joel Peter Witkin non è un fotografo. Il suo teatro della morte, o della vita, prescinde dal mezzo. Le ricercate scenografie immortalate, la forza e la grande pervadenza visuale di questi tableau vivant sovrastano e annichiliscono lo specifico del mezzo. Sono fotografie, ma potrebbero essere anche dipinti, o disegni.
Witkin violenta le sue immagini, le graffia, le sporca, le taglia per entrarci dentro, perché quella è la sua vita, quei morti, quelle donne languide e perverse, quegli ermafroditi, sono i suoi compagni di strada. Invitati per un rosolio nel salotto di Nonna Speranza.
Però la sensazione persistente è che queste foto potresti immaginare di trovarle sul trumeau dei salotti borghesi tratteggiati in punta di penna da Guido Gozzano, a fianco di un ritratto dagherrotipo di W.S. Hartshorn. E questo non soltanto per i toni seppia, per la materia a volte sgranata, per certe posture scenografiche dei personaggi, per i damaschi, i broccati e le acconciature Belle Époque che vi abbondano.
È da qui anzi che comincia la demolizione dell’ordinario, il gioco continuo al ribaltamento e alla doppiezza messo in atto da Witkin. Presentare il deforme come normale, il mostruoso come accettabile, il perverso come abituale, presentare un morto come un compagno di viaggio, un modello ideale. Davanti a queste foto sul nostro immaginario agisce quello che Walter Benjamin, nella sua lungimirante Piccola storia della fotografia, definì “inconscio ottico” e che riesce a farcele vedere con gli occhi del loro creatore.
La morte è per lui il continuo specchio, e su questo incide certamente la sua esperienza nella guerra del Vietnam, cui ha preso parte fra il 1961 e il 1964 come reporter, spesso portato a maneggiare cadaveri per un ultimo scatto, fino a considerare la morte come un evento della quotidianità. Un nuovo ribaltamento: davanti alle note teorie di Susan Sontag -“ogni fotografia è un memento mori”, ovvero l’idea che la foto, bloccando l’attimo, lo “uccide”-, Witkin mette direttamente la morte davanti all’obbiettivo. Le sue minuziose scenografie sdoganano nel consueto tutto ciò che abitualmente tendiamo a respingere. La morte, appunto, ma anche l’imperfezione, la deformità, la deviazione, la caducità corporea.
Il risultato è che troviamo affascinante un cadavere visibilmente reduce da autopsia (Glassman, 1994), “allestito” in una posa che richiama un San Lorenzo sulla graticola, o un Cristo alla Colonna, magari di scuola veneta. O che ci ritroviamo coinvolti ma non turbati dal ribaltamento in chiave transgender del mito di Leda e il cigno. O, ancora, intrigati dalla natura morta caravaggesca, dove il cesto lascia il posto a una testa acconciata a portafrutta.
L’ultimo ribaltamento? È il più scioccante. Joel Peter Witkin non è un fotografo. Il suo teatro della morte, o della vita, prescinde dal mezzo. Le ricercate scenografie immortalate, la forza e la grande pervadenza visuale di questi tableau vivant sovrastano e annichiliscono lo specifico del mezzo. Sono fotografie, ma potrebbero essere anche dipinti, o disegni.
Witkin violenta le sue immagini, le graffia, le sporca, le taglia per entrarci dentro, perché quella è la sua vita, quei morti, quelle donne languide e perverse, quegli ermafroditi, sono i suoi compagni di strada. Invitati per un rosolio nel salotto di Nonna Speranza.
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a cura di Gianfranco Composti
PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea
Via Palestro, 14 (zona Porta Venezia) – 20121 Milano
Orario: lunedì ore 14.30-19.30; da martedì a domenica ore 9.30-19.30; giovedì fino alle ore 22.30
Ingresso: intero € 6; ridotto € 4/3
Catalogo Federico Motta
Info: tel. +39 0276009085; fax +39 02783330; www.comune.milano.it/pac
[exibart]
Gran bel pezzo, complimenti. Di Witkin si possono scrivere molte cose e qui hai messo in evidenza il suo rapporto con la morte. L’arte di Witkin abbonda di riferimenti colti, più o meno inconsci. Il Goya dei Capricci e dei Disastri di guerra (autobiografici: vedi Vietnam), i fiamminghi (in chiave distorta), Man Ray, i surrealisti… e in più possiede il calligrafismo e l’immaginario grottesco di Bosch. Quale peccato avrà mai commesso quel poveraccio il cui cadavere ha ritratto come san Lorenzo sulla graticola? Oltretutto sapendo (?) che le prime iconografie relative al santo raffiguarno la graticola come una scala. Ma se allora la metafora era della scala che porta verso la Resurrezione e la Salvezza eterna (grazie al martirio, che filologicamente è “testimonianza di fede”), qui invece questo poveraccio ci è letteralmente incastrato e anzi la graticola sembra penetrargli le carni. In questa come in altre opere si vede chiaramente la problematica sessualità di Witkin (anche la citata visione transgender della Leda e il cigno, peraltro con Cupido atterrato). Volendo si potrebbe continuare. Ma l’essenziale è, come giustamente scrivi, che Witkin non è un fotografo. Grazie e complimenti.
Mi associo ai complimenti di Elena per la recensione che centra le questione della poetica di Witkin, che è genuinamente borderline, non certo da quadretto pour épater le bourgeois. A mio avviso talune immagini presenti in mostra suggeriscono un’estetica omosessuale (perdonatemi la rozzezza della categoria), con uomini flagellati, penitenti, segnati nel corpo da una fisicità che irrompe e corrompe la carne. Visione che induce talvolta lo spettatore ad oscillare in una posizione di sadico guardare, o, al contrario, di un masochistico immedesimarsi.
Non mi pare che Witkin faccia distinzione di sessi sinceramente.
ditelo che volevate scriverla voi la recensione! MM sei un ‘pennuto’ di rango! chapeau!