In una celebre
Postilla a Stevenson del 1925, Bertolt Brecht notava, con il solito acume, come nel nostro continente “
l’ottica cinematografica” esistesse già prima del cinema, poiché “
da molto tempo aveva avuto inizio una ristrutturazione della narrazione secondo criteri ottici”. L’esempio proposto da Brecht in campo linguistico, la sublime ebbrezza visiva nella poesia di Rimbaud, può forse trovare un parallelo, per quanto riguarda la pittura, nelle opere realizzate da
Claude Monet (Parigi, 1840 – Giverny, 1926) negli ultimi vent’anni della sua vita.
1887-1923: gli estremi cronologici entro cui si scala la datazione delle venti, struggenti tele eccezionalmente prestate al Palazzo Reale di Milano dal Museo Marmottan di Parigi – esposte insieme a una splendida selezione di stampe giapponesi proveniente dal Museo Guimet – permette un’immediata, sensibile riprova di questo assunto. A cominciare da
La barca, una tela del 1887. I piani orizzontali e profondi, le lunghe prospettive delle opere dei decenni precedenti hanno ceduto il passo a un mondo in cui riprese estrememente ravvicinate ribaltano verticalmente il piano della visione, come in una fotografia o, appunto, nel fotogramma di una pellicola.
Ci troviamo a un punto di altissima sperimentazione. Dietro un quadro come questo si muovono
Manet, i “
fedeli e prudenti” maestri di Barbizon,
Corot e
Courbet sopra tutti.
Tuttavia, questa tradizione si è già ridotta a una spinta che porta Monet a guardare il mondo con la stessa innocenza di chi lo osservi per la prima volta, senza nemmeno poter comprendere sino in fondo a che punto avrebbe condotto questa dilatazione dello spazio nel mondo dell’arte.
La rivoluzione che
Cézanne conduce per via di concetto, Monet l’insegue infatti per via di pura visione e sentimento. Un sentimento che sempre trabocca, sboccia, preme nella luce, protagonista assoluta delle tele. È lei che scompone e ricompone i termini della visione; e mentre in un quadro come
La barca si sente vibrare al di sotto di ogni colore, anche del nero più fondo, in
Ninfee (1907) diventa pura esplosione di sentimento, senza più mediazione.
È passato un decennio e, nel “buen retiro” di Giverny, Monet ha piegato la natura – una natura idealizzata e ricostruita, che trova il suo più alto punto di paragone nell’idea panica di un’eterna, quotidiana mutazione degli elementi, espressa nelle xilografie di
Hokusai e
Hiroshige – a farsi finalmente simbolo unico della visione. Scansando ogni tentativo di descrizione e racconto, per tuffarsi a capofitto, con la serie di quadri dedicati al
Ponte giapponese (1918-23), in una determinata dissoluzione dello spazio. Che separa lo spettatore dalla realtà osservata, il momento della visione e della percezione dal tempo di realizzazione del quadro.
Il tempo e lo spazio si piegano, s’incestano sotto le forme contorte, sinuose e filanti della sommersa vegetazione nenufarica, che ormai non è più una presenza reale in uno spazio tangibile, ma un precipitato specificamente mentale. Una “
molteplice compresenza di piani temporali” che trova un parallelo, anche cronologico nel suo divenire, con la creazione della più grande macchina narrativa del Novecento europeo: la
Recerche di Marcel Proust.
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Bella la mostra. Peccato che manchino le didascalie con la datazione dei quadri... si fa un po' fatica a seguire la cronologia. L'esposizione di stampe invece sembra una mostra a sé, non è che leghi molto. Finalmente saranno contente tutte le sciure che corrono a far coda alle mostre appena si parla delle ninfee di Monet.
Basta con queste mostre inutili, offensive rispetto al pubblico e dall'impegno nullo per i curatori!
Andate a vedere sul sito dell'ICOM il documento sulle mostre "blockbuster" e sui loro devastanti effetti economici e culturali!
Basta con la "cultura" e l'arte usate in senso puramente decorativo!
A me è piaciuta. 20 quadri che "fotografano" un periodo ben preciso, che fanno comprendere molto della poetica di Monet e stupiscono anche per la spinta in avanti dal punto di vista pittorico. Sarà forse una mostra molto pubblicizzata e "trendy", ma non sono certo che le gigantesche mostre monografiche con centinaia di opere siano meglio. Almeno qui il tema è trattato con compiutezza.
Tizsra o qualcosa di simile.
BASTA, con questo appropriarsi impunemente della cultura e sbatterla in faccia alla gente ogni volta che non ti piace qualcosa, per farli sentire ignoranti!
L'ARTE E' DECORATIVA!
l'arte è nata per quello, come i gioielli, nascono per adornare la persona, gli affreschi, i quadri e le statue servono per adornare i luoghi, le case!