Not Afraid of the Dark. Cinque nomi prestigiosi dell’arte contemporanea internazionale si fanno cronisti, con il proprio rispettivo punto di vista, senza preferenze geografiche di sorta, di alcuni momenti critici della storia dell’uomo, con uno sguardo rivolto al passato e la mente proiettata al futuro. Tema: uno stato d’allarme legato alla contemporaneità e alle sue problematiche sociali.
Si parte dall’ultraottantenne Fabio Mauri, artista che della denuncia sociale ha fatto la propria bandiera fin dai tardi Anni Cinquanta, con le sue performance, la più famosa delle quali, Ebrea, dedicata alle tematiche dell’antisemitismo, vide luce nel 1971, alla galleria Barozzi di Venezia. Qui, in Inverosimile, l’artista ripropone i temi della diaspora e dell’abbandono e, condendoli con un sentimento di nostalgia per i tempi andati, testimoniato da un’epigrafe di proporzioni dantesche, baratta il “lasciate ogni speranza o voi che entrate” per un profondo stato di desolazione. Implicito è lo straniamento dell’artista, il suo canto del cigno. In parole povere proclama di non riconoscersi più nel mondo di oggi e vi oppone un affollamento imbarazzante di oggetti, pellicole cinematografiche con cui riempire il suo vuoto, e un’escatologica performance di Luigi Lo Cascio, alle prese con l’Apocalisse che litiga con la penombra e il monumentale carosello mediatico. Rasserena il minimalismo di Jenny Holzer. Due video-proiezioni dirimpetto. Nella prima esibisce i documenti, fino a poco tempo fa secretati dal governo americano, relativi alla guerra in Iraq; nella seconda scorrono i testi delle lettere di condannati a morte. Un intervento che non necessita di ulteriori spiegazioni: è didascalico, eppure non banale, è pessimista, ma conserva un cuore poetico. Inoltre è sufficiente un’attenta lettura dei documenti per comprendere le fonti e chiudere il cerchio. Segue Kutlug Ataman, artista turco midcareer, educato tra Parigi e Los Angeles, con una carriera illustre alle spalle.
Qui recita a soggetto ed espone un lavoro datato 2004. Tornato a vivere ad Instanbul, fa del suo essere turco l’epicentro della ricerca artistica. Tira fuori dal cilindro magico un quartiere della capitale misconosciuto popolato da emarginati di ogni specie, ne intervista gli abitanti e ne sovrappone i punti di vista in un’installazione senza dolo e senza colpa, formata da una quarantina di monitor allineati in file parallele decrescenti. Cui si contrappone il grido essenziale Klassenkampf, l’invito alla lotta di classe di Santiago Sierra, che richiama il lettering cuneiforme dell’estetica del costruttivismo sovietico e riassume, senza troppi panegirici, un punto di vista politico ed un’ansia sociale, ormai forse dimenticati, con dei mezzi visivi ugualmente d’antan.
Il percorso espositivo culmina con la passione travolgente di William Kentridge, l’empito disarmante dei suoi carboncini, la relazione ad incastro perfetto con il tema della penombra -sia essa metaforica o reale- il sentimento anti-coloniale fino al midollo, tale da inserire la propria opera nel contesto in cui si colloca con garbo e rispetto storico.
Non a caso Kentridge recupera le ombre del passato italiano e sulle note dell’inno fascista giovinezza crea una sorta di lanterna magica espressionista, in cui sulle immagini in movimento grava l’ala oscura -e seducente quanto i suoi chiaroscuri- della morte.
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santa nastro
mostra visitata il 1 aprile 2007
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