Un lungo labirinto cosparso di lamine d’oro e la
mostra ha il suo inizio: terrecotte,
narigueras, collane, orecchini e
paraphernalia utilizzati nei rituali appaiono
in tutto il loro splendore in un percorso espositivo completamente buio.
L’intento è infatti quello di esaltare la lucentezza e la minuzia dei
particolari di questi oggetti, prevalentemente in oro e perfettamente
conservati.
L’artigianato è certamente il punto di forza di
questa mostra, che si presenta secondo un allestimento tematico e non
cronologico: i reperti – tra cui una mummia -, alcuni mai esposti in Italia e
provenienti dai più importanti musei peruviani, appartengono alle principali
civiltà precolombiane, ma pochi sono quelli databili intorno al periodo della
civiltà inca (XIII-XVI sec.), che diviene impero nel XV secolo.
Tra le 270 opere esposte, molte risalgono alla
cultura moche (I-VII sec.), la cui produzione predilige l’uso della terracotta
e della ceramica, con motivi tratti direttamente dalla vita reale, e a quella sicán
(750/800-1375), in cui prevalgono soprattutto ornamenti funerari, come i guanti
d’oro o le maschere che accompagnavano il defunto nel suo viaggio nell’aldilà.
Il filo conduttore è il metallo o meglio l’oro, onnipresente in tutta la
produzione precolombiana: l’oro, abbigliamento del sovrano, simboleggiava il
sudore del dio Sole-Inti, fratello e sposo della Mama Quilla-Luna, relazionata
invece all’argento.
Secondo questa cosmogonia, fondata sull’antitesi di
concetti complementari, il metallo è considerato alla pari di un essere vivente
che relaziona l’umano con il divino: il fulgore degli oggetti rimanda
all’incorruttibilità dei due corpi celesti e la sua conformazione alla
ciclicità della vita umana. Ogni elemento è dunque carico di dualismo e c’è
l’invito, da parte della curatrice Paloma Carcedo de Mufarech, ad andare oltre
il semplice valore estetico per analizzare ogni opera esposta alla luce di
questa spiritualità arcaica, dove ogni oggetto del reale si anima e diviene
multisensoriale. Un lavoro sull’immaginazione tutto affidato allo spettatore,
stimolato da ben poche “mutisensorialità” lungo un percorso espositivo
piuttosto ripetitivo e forse non del tutto comprensibile al grande pubblico.
Il viaggio nella civiltà dell’oro si conclude in
Plus
Ultra. Oltre il Barocco, mostra dedicata al barocco latinoamericano e all’immaginario
iconografico che s’impone sulla produzione figurativa indigena dopo la
conquista degli spagnoli nel 1532.
Varcate le colonne d’Ercole (“
nec plus ultra”), gli influssi autoctoni si
fondono con quelli europei in un nuovo linguaggio, radicalmente trasformato e
modellato secondo i modelli occidentali. Così i santi assumono la fisionomia
dei
conquistadores,
la Vergine si appropria di una nuova simbologia, specie quando è accompagnata
dal serpente, che è piumato come una delle divinità del pantheon mesoamericano.
Meritano particolare attenzione i quadri di
castas (incroci razziali) come
Escenas
de Mestizaje (1750) di
Luis de Mena e le opere dell’artista colombiana
Olga de Amaral, come
Rios (2002) o
Umbra 50 (2006), che non hanno tanto
l’intento di esprimere un messaggio specifico quanto di restituire l’aura e la
sacralità degli antichi miti.
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Stupenda Mostra!!! Un grande saluto a tutti voi del Museo Santa Giulia
Ana & Luca