La storia della pittura di
Trento Longaretti (Treviglio, Bergamo, 1916; vive a Bergamo e a Framura, La Spezia) è quella di una fondamentale, costante e continua coerenza con il proprio stile. Le sue tele parlano di emarginati, mendicanti, clandestini, poveri, vittime di sospetto e indifferenza. La sua umile poetica della semplicità e della privazione si esprime attraverso volti scavati dalla fatica e dall’inedia, occhi sgranati dei suoi ragazzini scheletrici, mani grandi e callose e la malinconia delle tinte violacee, marroni e bluastre che li avvolgono.
Nei quadri dell’artista lombardo soffia il vento dell’est, sulle cupole dei monasteri ortodossi e sugli abiti dei profughi e mendicanti che dipinge. Quella dell’Est Europa non è soltanto una fascinazione tematica, ma anche espressiva. Oltre all’influenza del
Picasso dei periodi blu e rosa, c’è molto
Chagall nelle sue opere, e soprattutto
Oskar Kokoschka, il cui
La sposa nel vento viene richiamato da
Maternità in azzurro con ragazzo.
La grande antologica dedicata dalla Fondazione Mazzotta a Longaretti si articola lungo tutto il periodo creativo dell’artista,
dai tempi di Corrente, con due tele degli anni ‘40 (
Composizione (La poesia) e
Natura morta con candela), fino alle ultime creazioni, tra cui
La scodella vuota, è fame e
Pellegrini d’oriente e gli orti del monastero.
La mostra si articola in due momenti espositivi. Al piano terra sono esposti i quadri di paesaggio. Paesaggi e passaggi, città che fanno da sfondo al peregrinare di fuggiaschi e clandestini costretti a un eterno movimento. Sono quadri di grande impatto cromatico, ricchi dei colori caldi di notti festose con più astri e più lune, mentre l’eterno viaggio dei migranti appare seminascosto nelle strisce oblique di colore che lo raffigurano. Al piano interrato, lo sguardo dell’artista si avvicina ai soggetti che lo interessano. Vengono meno i colori caldi e incendiari dei paesaggi, per toni più freddi, tesi ad accrescere l’immobilità di soggetti afflitti sempre dagli stessi mali o a raffigurarne lo sguardo con nature morte altrettanto disadorne e tormentate.
Mendicanti, musici, acrobati, ebrei, zingari si perdono in attimi eterni di solitudine, emarginazione e indigenza, in espressioni di disagio e profonda tristezza. Qui vecchi e bambini si accompagnano, passandosi il testimone del comune destino mendicante e affamato. Oltre agli uomini della strada, l’occhio di Longaretti scruta nel tormento della povertà domestica delle famiglie, dedicando ampio spazio al tema della maternità, raffigurata da madri che sono il ritratto della disperazione, ma che anche nella profondità del loro tormento sanno trovare spazio per la dolcezza.
Il
Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa venne descritto come l’ultimo grande romanzo ottocentesco, pur appartenendo alla metà del secolo successivo. Allo stesso modo, le tele di Longaretti parlano il linguaggio di una pittura dei primi decenni del Novecento, e ne hanno lo stesso fascino e la medesima lontananza. Per questo, al termine della mostra, la grande coerenza dell’opera dell’artista lombardo lascia un dubbio sottile, come sottile è la distanza tra coerenza e reazione, tra fedeltà a se stessi e autoreferenzialità.
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ah si! mi sembra di averlo visto in una tristissima galleria catanese l.i.b.r.a. mi sembra!la poetica e' tristezza?
Non è tristezza, Longaretti denuncia l'amaro del nostro tempo, enfatizzando con indicibile raffinatezza la forza e la dignità degli ultimi che affrontano il loro vivere (destino) con stoica rassegnazione.