Jean Michel Basquiat (New York, 1960-1988) non era il “Picasso nero” e neppure l’“Eddy Murphy” della pittura: i diversi tentativi della critica americana e internazionale di esaltarlo o molto più spesso denigrarlo non gli impedirono di lasciare il segno in un decennio e in una città carichi di contraddizioni, illusioni e potenzialità. Ora, forse, è arrivato il momento di restituire a questo grande artista quella credibilità e quella legittimazione troppo spesso offuscate dall’attenzione morbosa rivolta alla sua tragica vita.
Il cliché dell’artista maledetto, destinato a un’inevitabile morte –seguito alla lettera nella mediocre pellicola dedicatagli dal pittore-regista Julian Schnabel nel 1996– non è più sufficiente per spiegare una figura tanto affascinante e complessa. Per farlo si deve ripercorrere attentamente la sua breve biografia ed evidenziarne alcuni momenti fondamentali per la sua formazione. Come l’incidente del 1968, quando a soli otto anni fu investito da un’automobile e gli fu asportata la milza. Fu in questa occasione che la madre Matilde gli regalò il manuale di anatomia Gray’s Anatomy che segnerà profondamente il suo immaginario di bambino, riproponendosi poi nei suoi quadri sottoforma di simboli e segni. Oppure il periodo trascorso, a partire dal 1977, alla City As School, istituto per bambini potenzialmente molto dotati ma con problemi comportamentali, dove con l’amico Al Diaz inventò il logo Samo –acronimo incompleto di “Same Old Shit”- con il quale firmerà i suoi graffiti sulle pareti di Manhattan.
Proprio per mostrare il percorso completo dell’artista, viene proposta in Triennale una serie di inchiostri su carta firmati Samo, che mostrano da una parte una creatività già molto sviluppata e dall’altra l’intento dissacratorio, di matrice dada, nei confronti di una società che aveva iniziato a metterlo ai margini.
Nel 1979, tuttavia, sui muri di Soho comparve la scritta “Samo is dead”. Inizia, così, la scalata al successo di Basquiat, agevolata anche dai numerosi incontri con galleristi, critici, artisti che affollavano i locali di tendenza della città. Risalgono a questo periodo le amicizie con Keith Haring, Kenny Sharf, Vincent Gallo, Diego Cortez e Renè Ricard, che sul numero di dicembre del 1981 di Artforum pubblica il famoso saggio The Radiant Child, contribuendo a far crescere l’interesse nei suoi confronti. Le prime opere mostrano uno spiccato interesse verso la vita delle metropoli: incidenti automobilistici, grattacieli e aerei vengono riprodotti sulla tela attraverso disegni infantili, appena abbozzati, arricchiti da abbinamenti cromatici violenti e mai casuali. Opere che non possono non far pensare all’iconografia deforme, malinconica e primitiva di Jean Dubuffet o alla fase più violenta e espressionista di Karel Appel e del “Gruppo Cobra”. Diventa facile, così, individuare sulle pareti dell’esposizione milanesi sia le tematiche che ossessionarono Basquiat, sia i richiami formali alla storia dell’arte: la morte, rappresentata attraverso i teschi, le croci, le parole, il razzismo della società americana raccontato attraverso la celebrazione dei suoi eroi neri –Charlie Parker, Miles Davis, Cassius Clay, Malcom X e Martin Luther King– e il mondo dell’arte, popolato da sanguisughe (leeches) e pulci (fleas)- parole che compaiono spesso sui suoi dipinti.
I lavori dal 1982 al 1984 mostrano rapporti tutt’altro che forzati con il lavoro di Cy Twombly, non solo nella combinazione di testo e immagine, ma anche nella spontaneità del gesto pittorico. Da sottolineare anche l’interesse di Basquiat per i disegni rupestri africani e per simboli, segni e loghi raccolti nel libro di Henry Dreyfuss del 1972 Symbol Sourcebook. La mostra analizza anche il rapporto tra Samo e Andy Warhol attraverso una delle “Collaborations” del 1984 che evidenzia ancora una volta quanto fossero distanti gli universi creativi dei due e quanto male si integrassero fra loro.
La sezione conclusiva, infine, offre un Basquiat sempre più svuotato: i suoi lavori sono incompleti e il suo legame con la realtà appare un ricordo. A cornice e a supporto dell’intera mostra, inoltre, si trovano i vari contributi fotografici che mostrano i bellissimi scatti di Edo Bertoglio, Bobby Grossman, Lizze Himmel e Maripol.
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