Vengono dall’Ungheria, dall’Africa, ma anche dal Sud Est asiatico e dal Medio Oriente. I ventidue artisti presentati dai curatori Gabi Scardi e Hou Hanru rappresentano gli antipodi del globo. Distanti per linguaggio, usanze e cultura, ma uniti da un’esperienza: quella della migrazione.
Dalla scultura alla videoarte, dalla fotografia all’installazione, le opere disegnano una mappa del concetto di identità e del ruolo da essa svolto di fronte al proteiforme fenomeno della globalizzazione, testimoniando l’orientamento interculturale che caratterizza oggi la società e l’arte. Un fenomeno che investe ogni parte del globo, ed è di tale vastità, portata e radicalità in cui siamo sempre più privati di elementi di certezza nella visione del mondo e nella sua valutazione.
Alcune opere si insinuano silenziose nello spazio, altre sono provocatorie e gravide di denuncia. E investono la nostra dimensione, obbligandoci a togliere il comodo cappotto dell’abitudine. Così è per il giamaicano Nari Ward (St. Andrews, Giamaica, 1963) che parte dall’object trouvé per mettere in luce la poetica dell’usato, del rifiuto, e far rivivere la materia, infondendola di una nuova connotazione. Crusaders, in mostra, è un totem ambulante costituito da un carrello della spesa “vestito” di barattoli, taniche di benzina e sormontato da una struttura fatta di materiali plastici. L’opera rappresenta un invito a riconsiderare lo scarto, ad affrontare emergenze sociali spesso sottovalutate o ignorate (come quella, ecologica, legata alle multinazionali del petrolio).
Opere pulsanti, e nello stesso tempo sfuggevoli, testimoniano un fenomeno di difficile analisi, calato in una cultura che integra, disgrega, ricompone costantemente l’identità. Hanru parla, infatti, di “de-identificazione” dalla nozione stabilita di identificazione.
Magali Claude (Parigi, 1964), originaria dell’ex colonia francese della Martinica, porta in primo piano la frattura sociale che, ancora oggi, segna il volto della comunità nera. In The Wild Side mette l’accento sul tema dell’identità, manipolando e celebrando le immagini di quanti hanno portato avanti la causa della liberazione. 39 fotografie per rivendicare la propria appartenenza ad una categoria, quella degli oppressi. Come fossero ritratti di una “grande famiglia” tutti gli scatti sono incorniciati e posti su alcuni tavoli. In ognuno di essi, grazie ad un fotomontaggio, appare il volto dell’artista. Che in questo modo riscopre la propria identità attraverso l’integrazione con una comunità.
Temi che ritornano, in modo diverso, in Trampolin di Shen Yuan (Xianyou – Cina, 1959), un ampio materasso foderato di tessuti tradizionali cinesi che riproducono le mappe delle Chinatown europee, visitate dall’artista durante i propri viaggi. Una grande installazione in cui tuffarsi fisicamente . Ma attenzione, sembra dire l’artista, prima del lancio (verso il nuovo) dobbiamo conoscere profondamente le nostre origini.
Dalle tutte le opere risulta una stratificazione di esperienze e linguaggi che mette in scena una mappa della parola identità, quale progressiva interpolazione di vissuti e relazioni. Immagini forti, che proprio per i profondi segni di cui si fanno testimonianza, avrebbero forse avuto bisogno di più spazio per respirare e raccontarsi. La mostra risulta infatti, sfortunatamente, di complessa lettura a causa dell’eccessiva densità di opere, immagini e artisti.
silvia criara
mostra visitata il 31 ottobre 2006
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