Aka (also known as) è la prima collettiva ospitata nei meditativi spazi della Traffic Gallery. Fra i sette artisti chiamati a interpretare le dimensioni parallele dell’alterità, ritorna in galleria il duo
Karin Andersen–
Christian Rainer, coppia creativa austro-tedesca che aveva incantato le pareti degli spazi bergamaschi, illustrando gli imprevisti sentimentali di un giovane alieno, un poetico errante
at-terrato sul mondo reale.
Aka, formula acronima usata per indicare la ritualità dello pseudonimo, è di per sé un luogo designato per l’altro e per la sua ossessiva presenza ubiqua. Aka è anche sinonimo di alter ego, di altro sé, una seconda personalità o persona all’interno di una nuova figura, una sagoma vivente con caratteristiche nettamente distinte. Dunque, non un semplice fenomeno del quale mettersi sulle tracce.
Tutte le opere presenti in mostra (video, collage, installazioni e ambienti) amplificano il concetto di pseudonimo, dipanandolo nella forma abbreviata o semplificata di un nome ch’è andato perso.
Un nome di persona, di cosa o d’abitudine che risulta introvabile. Sparito, perché particolarmente lungo o perché difficile da pronunciare; disperso, perché incoerente o desueto rispetto al sistema fono-linguistico corrente. In
Aka l’idea di pseudonimo è scelta per dissimulare legami: un’operazione di copertura simbolica che finge attività illecite con il significato, attività nelle quali l’uso del nome anagrafico esporrebbe il soggetto che se ne servisse a dei rischi, magici o concreti che siano.
L’assenza di autorialità che si manifesta nelle desinenze del copyleft e l’auto-rappresentazione ormai soggiogata al principio dell’avatar e del nickname sono gli elementi attraverso i quali, oltre alla coppia succitata, hanno riflettuto
Romano Baratta,
Nark Bkb,
Clara Luiselli,
Cosimo Terzilli e Luca Vannulli, operando e assemblando geometrie altrui, con scenari selezionati e offerti al pubblico per una nuova visione ricca di strati e di
repêchage. Citazioni del proprio corpo rivisitato, stralci del proprio nome alterato, segni del proprio lavoro miscelato, percezioni di altri luoghi riconfigurati. Ognuno di questi artisti lavora con materiali che, ricontestualizzati, perdono la loro funzionalità prestabilita, rivangando la quotidiana dis-fasia del ready made.
Con
Luca Vannulli, ad esempio, l’assemblaggio acquisisce autonomia stilistica, diventando espressività. L’opera d’arte, manifestando un’assoluta indifferenza nei confronti dei propri limiti interni, prende distanza
contro la propria identità. In questo modo, il trattamento della citazione permette all’artista di mettere mano a nuovi orizzonti, tracciando differenti sensi prospettici.
Con
Aka, insomma, si cerca di ultimare il processo di definizione dell’artista. Che oggi non può più nascere senza esperienza né considerarsi il detentore assoluto della propria creazione.