Prima delle lune di Saturno di Birnbaum c’erano, nel 2006, gli anelli di Saturno della curatrice Emma Dexter e, prima ancora, i racconti dello scrittore W. G. Sebald, in cui un viandante si aggira con la mente fra resti e ricordi in una lontana East Anglia. Una mostra,
The rings of Saturn (2006) alla Tate Gallery, ispirata nel titolo proprio ai pezzi brevi del grande scrittore tedesco; una mostra che ha esplicitato fin da subito, in maniera chiara, la poetica malinconica di
Thomas Zipp (Heppenheim, 1966; vive a Berlino).
La mostra da Francesca Kaufmann dà visibilità al suo recente percorso. Zipp è un ottimo pittore; anzi, un meraviglioso pittore. Ognuno dei suoi quadri contiene la forza sufficiente per far da solo una mostra: sia
Sigridtin che
Helentin sono infatti capaci, con la loro scura potenza, di riempire lo spazio.
La sua pittura racconta storie di smarrimento tra le nebbie, frammenti di un libro d’arte, campiture astratte di colore freddo. Sarebbero lavori perfetti se non cedessero, nelle sculture e nelle installazioni, al fascino glamour e citazionista di teschi e religioni.
I quadri di Zipp sono splendidi nel colore: verdi, rossi bruni, blu opachi che spiccano confusi da neri polverosi. Sono tracciati di scarabocchi astratti che assumono la forma di figurazione, di volti, corpi, uomini e donne.
Sono citazioni confuse di
Bacon, in cui i contorni sono lividi, colpiti da una luce verdognola.
Il processo pittorico di Zipp è un percorso di riappropriazione delle immagini. Anche
Lydiatin trova il suo senso nell’essere citazione: un teschio in pietra porosa, sovradimensionato, retto da un piedistallo da boutique nero laccato, su cui si staglia la luccicante scritta argentea di un nome di donna. Ma forse sono proprio questi sapori mortiferi-cool, visti e rivisti, che iniziano a far perdere entusiasmo alla visita.
Giocata sugli stessi accordi glamour-religiosi è l’installazione
Il Satin. Come a una schubertiade, alcune sedie stanno raccolte di fronte a un organo vintage, circondato da strutture in legno e neon. Come se si fosse a una raccolta funzione religiosa, una via di mezzo fra le memorie di un vecchio presbiterio, fumetti americani ed evocazioni hard rock; seguendo con la coda dell’occhio la scia e la ricerca di
Banks Violette, ma con minore violenta.
Così, fra ricche e colte citazioni, fra il contemporaneo recente e il glamour dell’altro ieri, ci si perde e si fatica a trovare il bandolo della matassa. Che non sia il puro piacere del colore.