Cinque pezzi facili. A prima vista, il titolo di uno dei capolavori di Jack Nicholson potrebbe rispecchiare alla perfezione la personale di
Christian Frosi (Milano, 1973). A prima vista, perché in realtà le cinque opere presentate dall’artista milanese nascondono, dietro l’apparenza della banalità, un significato profondo e recondito.
Ad accogliere il visitatore, un lavoro impalpabile, quasi assente: un sacchetto di carta con all’interno un pacco di riso e bottiglie di succo di frutta. Un vero e proprio totem della quotidianità, il cui senso è il più semplice e universale possibile: prodotti di diffusione planetaria che diventano simbolo di una globalità quasi impossibile da trovare a livello culturale. È la seconda proposta, però, a colpire maggiormente. In bilico fra installazione minimalista e objet trouvé, metaforicamente collocata nell’unico punto della galleria pienamente rischiarato dalla luce naturale, si trova tutto il sistema d’illuminazione dello spazio, smontato dalla sua destinazione d’uso e ricollocato in chiave estetica; lasciando in penombra la galleria ed esibendo, ancora una volta, oggetti d’uso comune.
Un incontro del tutto surreale è quello fra un tubo di gomma e un paracadute, che l’artista cerca di scorporare e incorporare, s
volgendo e avvolgendo in spire che costringono e liberano, ibrido ofide acrilico che s’inerpica dal pavimento al muro e funge da diaframma tra due pezzi gemelli, almeno per costituzione e intenzione. Montanti di legno avvitati sulla parete in modo casuale, quasi uno shanghai verticale, e contornati da altri piccoli buchi nel muro, per avere l’illusione di poter cambiare a proprio piacimento la modulazione, in realtà immobile, come fosse la struttura di uno scaffale Ikea.
Chiude la mostra, nell’oscurità più completa della galleria impossibile da illuminare, uno strano monumento al lavoro dell’uomo, che riporta alla fatica manuale di tempi ormai passati: il recupero di una tecnica povera per fondere i metalli, applicata in questo caso al nulla. Una piccola fiamma ossidrica insiste sul cassone metallico di una vecchia carriola da muratore, surriscaldandolo, nell’assenza d’ogni contenuto.
Un elogio delle piccole cose, che nella loro semplicità possono trasformarsi in portatrici di significati universali e profondi, amplificati dalle sibilline interpretazioni dei lavori offerte dal foglio di sala – che diventa a sua volta opera d’arte – e dai titoli, che portano anch’essi una parte visiva.
Sei pezzi da mille tutti da scoprire, da decifrare, per capire che non servono sovrastrutture per creare capolavori.