La galleria è buia. Prima che si entri dalla porta escono voci. Gorgoglii, smorfie, rumori, spari, esplosioni, urla e sbiascichi. Hinc erit fletus et stridor dentium. All’interno sembra di essere arrivati in un girone dantesco, uno di tipo hollywoodiano, magari ideato da George Lucas. Negli spazi spandono, sospesi, frammenti di guerriglia giganti, proiettili parlanti e luci rossastre che rimangono come sfondo. In superficie, su questi oggetti volanti, stagnano occhi, nasi, rughe e labbra truccati come maschere teatrali, metallescenti. Ogni faccia è proiettata su supporti di volumi diversi, dando la sensazione che tutti i personaggi siano stati risucchiati, e imbottigliati dentro le superfici. Le video proiezioni, sono infatti così accurate che, per errore, si può pensare provengano dall’interno dei frammenti di gesso. Frammenti tenuti fermi a mezz’aria, da fili di nylon.
Un video scenario di questo genere non poteva che essere firmato da Tony Oursler (New York, 1957). L’artista americano che maggiormente ha innovato lo spazio e l’espressione delle installazioni video all’interno della cosiddetta videoart. Dal 1992, con The watching, Oursler utilizza il volto come mezzo espressivo e teatralizzante, un dispositivo per dare ancora più potenza al senza-limite del visibile. I rumori e le luci diventano dimensioni atmosferiche che supportano l’immagine, la dilatano e la umanizzano, fino ai bordi della materia consentita. In questo consiste l’opera dell’artista americano: nella restituzione all’occhio dell’egemonia visuale.
A quello sguardo che entra e arrotonda l’immagine proiettata, cambiandole di posto, ed eliminando la bidimensione del materiale video. Quel fotogramma instabile che viene plasmato su e con il supporto a sostegno, dentro quel volume oggettivo che rappresenta l’unica forma verso un’esistenza reale. Una presenza tridimensionale.
I monologhi di ogni faccia-proiettile, in galleria, sono un esempio di un processo di sculturizzazione del supporto video. Ogni attore recita in loop i propri versi violenti, onomatopee che prima simulano e poi interpretano la violenza stessa. Ed ogni volume-proiettile porta su di sé l’umano ipo-statizzato, il viso aerodinamico che rappresenta l’arresto della velocità, il non-sense delle armi e il loro linguaggio sparso.
L’immagine, dunque, per questa installazione costituisce l’avvenire della visione e dei suoi vizi da voyeur. L’arte allora diventa una scusa che non può fare a meno di trasmettere messaggi. Contorte parole roche che straparlano di respiri metallici, coltelli imbottiti ed esplosioni di risate.
E il corpo umano diventa il malomondo del contemporaneo, un frammento rotto che si disintegra perdendo le origini di una propria, mitica figura centrale. Perdendo persino il proprio profilo metaforico.
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