La salvezza nel selvatico. In questa breve frase è racchiuso il significato dell’ultimo lavoro di
Alessandra Spranzi (Milano, 1962). Una frase vecchia di secoli, ripescata nel Codice Trivulziano, ma che oggi più che mai sembra trovare la propria ragion d’essere. La necessità di opporsi o, meglio, di resistere a quanto c’è di civilizzato, culturalizzato, organizzato, educato. La speranza che esista una possibilità di fuga, che non sia troppo tardi. Che il selvatico non sia ormai completamente compromesso o, peggio ancora, che non sia compromessa la nostra capacità di viverlo.
Simone Menegoi, curatore della mostra, cita Wittgenstein e fa bene: se un leone potesse parlare non lo capiremmo. Quanti di noi avrebbero oggi effettivamente la predisposizione d’animo di cercare la propria salvezza nella nostra radice animale? Quanti sarebbero in grado di ritrovarla? Forse la violenza dell’addomesticamento ha fatto il suo corso. Siamo già tutti troppo mansueti. Siamo stati sedati. Ciò che rimane è un’insofferenza latente e una sottile ma ostinata resistenza.
Purtroppo non siamo meno bendati del cavallo dell’immagine, eppure rimane in noi la volontà di ribellione, di fuggire, anche se ignoriamo verso quale direzione. Né ci viene ovviamente indicata. Neppure l’orizzonte è rappresentato, c’è solo il cielo aperto delle possibilità .
Intorno a questa ricerca di salvezza ruotano tutte le fotografie della serie. Sia che si tratti di immagini ri-trovate e ri-fotografate, di fototessere o di fotografie effettivamente realizzate dall’artista, di animali finalmente liberi dalla schiavitù di essere amici, di oggetti finalmente liberi dalla schiavitù di essere utili. E proprio nelle opere che ritraggono utensili abbandonati, arnesi dimenticati e cose dimesse – un ombrello con le stecche rotte, una rete riempita di palloni da basket, una ruota di bicicletta appesa a un muro, una pagnotta abbandonata per terra – ritroviamo la Spranzi che conosciamo.
Non solo quella delle piccole cose e degli interni domestici che parlano del suo vissuto personale, ma anche quella che guarda a un contesto internazionale e si pone in linea con le ricerche piĂą note di
Richard Wentworth,
Gabriel Orozco ed
Erwin Wurm. Dove la fotografia registra con finta disattenzione le casuali sculture del mondo. Create da oggetti dimenticati, sovrapposti o talvolta addirittura da persone che per un momento diventano le interpreti di uno spazio plasmato.
Nel lavoro di Spranzi, però, l’ironia lascia il posto alla malinconia. Le tartarughe, che, una sull’altra, si contendono un piccolo spazio di roccia emerso dall’acqua sono un grido di resistenza oltre che un’istallazione temporanea.
Ogni tanto va detto: complimenti. A Menegoi, che ha curato e allestito la mostra con un’attenzione rara e meritevole; ad Alessandra Spranzi, ovviamente, che si conferma come una delle figure più interessanti del panorama italiano; e, questa volta, a Fotografia Italiana, per la scelta confermata e non scontata verso la recente ricerca fotografica del nostro Paese.