Alcuni ritengono che la pittura oggi si manifesti
implicitamente, sotto altre forme. Molti altri sostengono che, da tempo, sia il
disegno la nuova pittura. Un mezzo di scambio.
Maria Francesca Tassi (San Pellegrino Terme, Bergamo,
1977; vive a Milano) prova a tenere in caldo questa seconda opinione,
frizionando il limite fra le due prassi artistiche.
Alla sua prima personale milanese, sfoggia scale
cromatiche fluorescenti e sfumature di tutto rispetto. I lavori esposti
emergono lentamente dal bianco, scoprendo visioni intimiste, di piccola scala,
e paesaggi accompagnati da volumi pop-surreali più grandi (formato-parete). Il
segno grafico è fitto, tenace e allo stesso tempo delicato, senza gravità. Ma
non c’è nulla – tanto nella scelta dei soggetti, di natura biomorfa, quanto
nell’ordine compositivo – che non sia prevedibile.
La ricomparsa posturale del figurativismo mono-dimensionale
necessita però di una spinta drammatica più forte per emergere dalle particelle
trattenitrici della tela. L’austerità visiva che accompagna l’atmosfera dei
lavori esposti è infatti solo accennata. Tra fluorescenze ed efflorescenze, Tassi
ripropone enigmi, radici, meduse, micosi e transgenie antropomorfe. Ogni tela
sfrutta senza dovizia la vivacità dei contrasti, per poter invece far emergere
la lontananza metaforica dei punti di fuga e l’importanza dei contorni.
Colori sognanti e mondi dove la centralità soggettivante
dell’uomo non esiste sono una semplice scappatoia per allontanarsi dalla
formalità del reale. L
udica e apocalittica, piuttosto che diventare teatrale
Tassi prosegue senza eccessiva fretta, completando con ricorsività e
similitudine simmetrica ciascuna tela. Nessuna sorpresa e nessun
maldipancia, dunque: quel che si vede
potrebbe essere tanto una specie di miraggio biologico, sommerso a centinaia di
metri sotto l’oceano, quanto un appunto steso su un gigantesco quaderno di
disegni, trovati nello studio di
Peter Doig, di
Marlene Dumas o di
Daniel Richter.
Scrutando in tralice, nel tragitto de
La prima corsa non si nota nulla di meccanico o
meccanizzato, mentre fra lavoro e lavoro, fra una tela e l’altra, si svolge
un’intensa sincronizzazione poetica, spesso scambiabile per compiacimento
stilistico. Lo sfondo gelido e l’assenza di
nuance che ripristinino il registro del
quotidiano nello scenario simbolico portano l’occhio dell’osservatore a
domandarsi quale sia il livello di astrazione richiesto. Misura all’apparenza
così eterea che non sembra prevedere
richiami da dentro, maschere di sangue da far
reagire, nelle viscere di chi guarda.
Comunque, qualunque sia la missione di quest’artista – che
sembra muoversi con una certa fluidità tra graphic design, cartoonism e disegno
-, è bene apprezzare le sue incursioni in un serbatoio minimalista acceso,
contenuto, che ne slancerebbe le qualità tecniche. Da notare, invece, come la
scena figurativa densissima risulti fin troppo impegnata a riverberare
sensibilità ascetica.