Un percorso artistico simile a
Paul
Thek: dalla
pittura alla plastica, dalla superficie allo spazio.
Martin Städeli (Basilea, 1962; vive a Berlino)
realizza coi mezzi della decostruzione contemporanea una riflessione che
pertiene alla scultura tradizionale: come farsi vuoto attorno e come occuparlo.
“
Le figure hanno bisogno del
vuoto, affermano
il vuoto, il nulla, e al tempo stesso sono piene zeppe, sovraccariche di cose
che accadono”.
Queste sculture antropomorfe e zoomorfe assomigliano a infiorescenze più che a spesse
accumulazioni di carta e colla. Fibrillano ma sono stranamente attraversate da
una sorta di “stagnazione” della narrazione; sono piene di eventi che non
fluiscono, accumulati in un processo di creazione lungo e lento, quasi simile
alla sedimentazione. L’origine del lavoro sembra essere quella di una pittura e
di un collage in espansione, protesi verso lo spazio.
Nella loro ambiguità, i personaggi
di Städeli restano apolidi. Lo spirito buffonesco delle maschere da commedia
italiana si tinge di un senso di perdita, tipico del viaggio dantesco. E le
personae ironiche e taglienti di questa
comedie
humaine acquistano apparenze residuali e la postura di eroi sopravvissuti al tempo.
La
scelta installativa ricostruisce
ensemble scenici di figure accasciate o claudicanti, a
volte sorrette da gambe sifilitiche, a volte ridotte a mezzibusti tranciati,
con gli avambracci abbandonati di fronte al ventre.
Una scultura praticabile, a tratti
attraente e a tratti repulsiva, a cui ci si può avvicinare, per sentirla vuota
e risuonante ma anche intima e tiepida. Nell’intrico cartaceo sembra di intuire
espressioni beffarde e sofferenti o di scorgere inaspettati profili africani
con labbra e lineamenti carnosi. Mentre piccole ferite aperte sui fianchi
lasciano intravedere, come prelievi geologici, la stratificazione di quei corpi
che si raccolgono in posizioni scomposte, coronati e poverissimi.
Le figurazione scultorea di
Städeli lotta con un’incipiente deformazione. Le anatomie ibride, nate dalla
simultaneità dei piani narrativi, si compongono di tratti fisionomici
sbriciolati e ricomposti, mani in fuga o mutilazioni a cui supplisce il
raddoppiamento di arti e di intere porzioni di corpo.
Quelle che Reski definisce “
deflagrazioni
parziali o totali del corpo” avvicinano alcune delle sagome in mostra a conformazioni totemiche
in cui l’affollamento di elementi sul viso, la propagazione di svariate coppie
d’occhi e l’applicazione di luride ciocche di capelli posticci sfiorano il primitivismo
delle maschere rituali. La forte apparenza biologica di questi cumuli detritici
sembra coniugare regno animale e regno minerale: sotto una pelle tatuata da
titoli di cronaca, colate di colla e interventi pittorici, l’umano, l’animale e
il vegetale sono trattati al pari.
Tra possanza e friabilità, invito
e barriera, le sculture di Städeli si ergono a custodi silenti di qualche
fugace mistero, attori o aiutanti di scena. Tesori o guardiani di porte.