Kent Iwemyr (Hallstahammar, 1944) presenta a Milano la sua prima personale italiana. In scenari ampi e resi irreali dalla scelta delle luci e dei colori, l’attenzione si concentra sulle figure umane, protagoniste di storie che non vengono raccontate ma solo sussurrate, lasciate in sospeso, suggerite.
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Iwemyr, Kusturica, Fellini e Kaurismaki hanno in comune una visione della vita che è un conglomerato insolubile di tristezza, gioia, luce, oscurità ”, scrive nel testo il critico e giornalista svedese Anders Olofsson. A questo elenco si potrebbe aggiungere il nome di un altro maestro della regia,
David Lynch, che proprio alla Triennale ha recentemente esposto i suoi lavori “grafici”. Come nella pittura del cineasta americano, i tratti dei personaggi sono solo abbozzati, secondo uno stile che si potrebbe semplicisticamente inquadrare all’interno del panorama naïf.
Esposti in quinte teatrali, paio sapere che un pubblico li sta osservando; a volte dirigono lo sguardo proprio verso chi fissa la tela, come per comunicare qualcosa della tragedia nella quale sono immersi. Sono personaggi disperati, tristemente soli in mezzo ad altri, con i quali non esiste comunicazione, solo conflitto. Ognuno di essi occupa la propria parte di tela, senza interagire con gli altri.
Donne vestite di bianco, uomini con il cappello, alberi che assumo forme antropomorfe diventando testimoni delle storie che si stanno svolgendo; e poi simboli dal valore universale come l’acqua o un pianoforte, del quale ci sembra di poter sentire la melodia. La colonna sonora della mostra potrebbe essere proprio quella dei film di Lynch, nei quali la musica gioca un ruolo fondamentale, creando un senso di tensione che non riesce a sciogliersi e lasciando sospesa ogni possibilità di giudizio razionale nello spettatore, che cerca una soluzione rassicurante ai terrificanti misteri accennati.
Lo scenario s’impone con i suoi particolari più o meno ingombranti, siano essi colline, case o bottiglie. Nella sua costruzione, le figure umane risultano collocate in posizione decentrata, quasi come se bastassero i particolari inanimati a raccontare il senso del dipinto e la presenza umana fosse accessoria, un oggetto come gli altri.
Iwemyr non racconta dove condurrà i suoi passeggeri una barca a remi persa in mezzo all’acqua paludosa (
Madly in Love), né di cosa è meglio il diavolo nella storia che sta vivendo la sposa circondata da strani personaggi (
Better the Devil) o in che principe azzurro potrebbe trasformarsi la rana se fosse baciata dalla ragazza in minigonna bianca (
Don’t kiss the frogg).
Iwemyr non dà la soluzione ai suoi giochi di parole nella corrispondenza fra titolo e quadro. La sua pittura nega invece che affermare, abbozza più che descrivere, ascolta più che narrare. E in ciò risiede il suo fascino.