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I miei ritratti nascono così: sono modelli presi dalla strada che assumono dignità di santi”. E sono proprio i modelli sconosciuti -seduti, sdraiati oppure in pose contorte- che l’americano
Paul Beel (Westlake, Ohio 1970; vive a Firenze), italiano d’adozione da una decina d’anni, presenta alla sua personale negli spazi della galleria milanese Ca’ di Fra’.
Pochissimi gli elementi coinvolti: il corpo, una poltrona, un materasso, una cassa in legno, elementi quotidiani densi di significato, che sollecitano perplessità anche in virtù della loro location, identificata con un ambiente anonimo, spoglio, teatro claustrofobico nel quale inscenare il dramma personale. Beel, profondo indagatore dell’animo umano, apre così uno squarcio, un’indagine sulla parte più intima e recondita di ogni suo personaggio, che cela ormai a stento segreti, debolezze e fragilità, in un corpo privato delle proprie vesti, e dunque di quel sottile confine che lo separa da ciò che lo circonda.
Non esiste nei quadri di Beel un intento narrativo, una trama da svelare; tuttavia affiorano, in alcuni punti strategici, indizi ambigui e destabilizzanti, come nel caso di
Sissi with Smeg, in cui una donna giace sul pavimento accanto a un frigorifero riverso. Qui, come altrove –
I pensieri di Patrizia (2007),
Il miracolo di Valentina (2008)- si delinea con forza il contrasto tra le forme dei corpi, le carni vivide, da un lato, e la rigida geometria delle piastrelle di pavimenti e pareti, dall’altro, quasi fosse un tocco di compensazione astratta in risposta al crudo realismo della presenza umana.
Ed è la “presenza”, non semplicemente il corpo, a dominare le tele di Beel, perché non si tratta di una mera “vocazione realista”, sterile desiderio di restituire la realtà con pedante precisione, bensì di una visione oggettiva mediata dal concetto, riassorbita nel più vasto ambito di una speculazione, di un pensiero.
Beel frantuma così quel cliché intellettuale che associa l’attitudine concettuale all’incomprensibilità formale e con abilità oscilla continuamente tra
high and low, tra fonti alte -in passato la drammaticità e il sapiente gioco chiaroscurale di
Caravaggio, e alcune soluzioni di
Daumier e di
Goya ne
I disastri della guerra, evidente in alcuni disegni esposti- e fonti basse, citazioni tratte dalla cultura pop, spaziando dal fumetto ai film, dalla Science Fiction a oggetti comuni come le centinaia di caramelle a forma di bruco che si moltiplicano come mutanti in
A very gummy morning, lontana eco di film horror.
Regista di situazioni sospese, misteriose, angoscianti, in cui si respira un senso di catastrofe imminente, appena trascorsa o in procinto di avvenire, Paul Beel ci lascia soli di fronte ai suoi eroi, nei quali per riflesso ci rivediamo, in uno straniante processo di vedere-vedersi-essere visti.