Chi non conosce
René Magritte (Lessines, 1898 – Bruxelles, 1967)? La sua complessa iconografia, nella sua semplicità, è ormai parte dell’immaginario collettivo: uomini volanti con bombetta e ombrello fanno capolino quotidianamente sugli schermi televisivi, intenti a reclamizzare prodotti d’ogni tipo. E come dimenticare
Le fate ignoranti, italianissimo film del regista turco
Ferzan Ozpetek, che da un’opera del pittore belga mutua addirittura il titolo. Si può scorgere un’eco magrittiano (
La Poitrine) negli “agglomerati” di
Giacomo Costa; mentre un interessante gioco di rimandi lega
La bonne fortune, quadro del 1945, a
La fattoria degli animali di George Orwell, edito nello stesso anno, seppur iniziato nel 1937: difficile capire se il maiale con la bombetta che campeggia sulla tela mentre varca la soglia di un funerale sia nato nella mente del pittore dopo aver conosciuto il dispotico Napoleon orwelliano,
o se questo abbia preso preso forma dopo aver visto l’opera di Magritte, il cui sodalizio con lo scrittore inglese è riscontrabile anche in
1984. Insomma, cercare di tracciare una mappa delle influenze e delle ispirazioni è un lavoro infinito.
Camminando tra i corridoi della mostra, guardando le 110 opere esposte, il pensiero dello spettatore è sottoposto a molteplici input: le immagini risultano familiari e accoglienti, ma il senso di quelle visioni dal vero dà un valore aggiunto alla fruizione, che è la ricerca del significato. Ammaliano, affascinano, avvolte nel loro mistero. La rappresentazione della natura acquista una valenza concettuale, di senso altro, di spaesamento; lo slittamento è tutto in quelle figure, talmente conosciute da risultare banali, che però si ritrovano a essere simulacro di un messaggio nascosto. Talvolta la parola invade la superficie pittorica, in modo dissimulato, mantenendo l’aspetto dell’ambiente a lei intorno. Altre, invece, è la natura a invadere lo spazio artificiale, creato dall’uomo, fino a diventare parte del corpo umano stesso.
Il paesaggio diventa specchio della condizione antropica, del momento storico: “
Un’immagine ignota dell’ombra è evocata da un’immagine nota della luce”, asseriva l’artista. E la pittura assume un valore apotropaico, mitologico, quasi scaramantico, coronato dalla grande tela de
L’impero delle luci, che chiude il percorso, simbolo della contraddizione dell’animo umano, ma anche della sua illuminazione d’ingegno, possibilità di rivalsa nei confronti dell’ignoto, che rabbuia la ragione.
Una mostra che si preannuncia un blockbuster, che appassionerà i visitatori più diversi ed eterogenei. E che sarà l’unica possibilità di vedere a Milano contributi proveniente da collezioni private internazionali.
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ah ecco perché quel titolo era figo
Peccato che l'illuminazione delle sale non sia particolarmente curata, in particolar modo nell'ultima sala che accoglie L'impero delle luci.
Belissima mostra Magritte è sempre Magritte.
Mi ha ispirato molte fantasie...ma non mi ha trasmesso pathos...peccato.