“L’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile”. Così Paul Klee (Munchenbuchsee, 1879 – Muralto, 1940) spiegava il significato del fare arte in un secolo ormai convinto che “…il visibile costituisce un puro fenomeno isolato e che ci sono… altre numerose realtà”.
Aveva iniziato Van Gogh ad allontanare l’immagine dipinta dall’apparenza reale, utilizzando i colori non in modo naturalistico, ma per riprodurre emozioni e stati d’animo. Il leit motiv del rapporto tra mondo esterno e universo interiore attraversa tutta l’arte del XX secolo (pittura, scultura, musica e letteratura).
L’artista abbandona la figurazione e ricerca un linguaggio adatto a rappresentare la struttura interna delle cose. Soggettiva è la visione del mondo e soggettivo il linguaggio scelto per comunicare, invenzione di “forme, immagini, segni e colori” (Palazzoli).
La Galleria Blu mette a confronto due modi diversi di esprimere l’invisibile, Paul Klee e Giuseppe Santomaso (Venezia, 1907-1990), presentando opere di grande qualità, in prevalenza su carta.
Klee predilige una tavolozza di tinte raffinate e liquide (Das Pferdchen 1918), segni ordinati, composizioni che giustappongono forme e colori con equilibrio e una sorta di meditata attenzione (Hauser Enge 1939). In Pflanzen Glashauser (1936) compaiono i marcati segni neri che caratterizzano l’ultima fase dell’attività di Klee, ma chi guarda è attratto dalla ritmica combinazione di forme colorate, nelle quali sembra rivivere il ricordo dell’immagine di una vetrata policroma.
Nelle opere di Santomaso il segno e il colore s’intrecciano e si sovrappongono (Capanno Rosso 1952); aboliti la geometria e l’ordine, la linea corre libera sul fondo, denso di colore piatto (Gialli e rossi della mietitura 1956). Il colore, mai trasparente, ma sfumato e lieve, è distribuito con pennellate larghe e istintive (Spazio in tensione 1969 e Ricordo giallo 1953) oppure relegato in secondo piano in opere nelle quali è protagonista un tratto grafico e incisivo (Omaggio al crocefisso di Cimabue 1967 e Sudario quotidiano 1964).
Le opere di Klee presenti in mostra datano dal 1917 alla fine degli anni ’30; quelle di Santomaso si collocano tra la metà degli anni ’50 e il 1984. Alcuni decenni separano i due artisti, anni che vedono la nascita dell’action painting, dell’arte gestuale e del segno forte e graffiante. Ma la distanza nel tempo non è forse sufficiente a spiegare la diversità di mezzi espressivi. Klee è “un pensatore dalla cultura sterminata, che sa tradurre il pensiero… in immagini o figure della memoria” (Marilena Pasquali). Santomaso appare più istintivo e non-mediato, l’uno dipinge immagini rielaborate dal pensiero, l’altro imprime sulla tela l’emozione di un attimo.
Tra le opere di Klee in mostra quella che ha maggiori punti di contatto con l’universo vago di Santomaso è Ghosts (1938), dove forme come fantasmi primordiali galleggiano su uno sfondo spesso e materico (carta trattata con gesso). Negli ultimi anni Klee, gravemente malato, rifletteva sulla morte, lasciando talvolta che l’emozione prevalesse sul pensiero razionale. Santomaso sembra avvicinarsi a Kandinskij più che a Klee con Il muro del pescatore (1954): colori chiari e brillanti, una larga macchia nera che dialoga con un insieme geometricamente ordinato di linee che s’intersecano.
Le composizioni di Klee abbracciano un arco di tempo, quello del ricordo, Santomaso è l’istante dell’emozione. Più leggibile e geniale Klee, più impenetrabile Santomaso? Il fine della loro arte è comunque lo stesso, indagare il senso profondo dell’esistenza perché “nella sua forma presente, non è questo l’unico mondo possibile” (Klee).
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