“
Pazza o savia? La fotografia può essere l’una o l’altra cosa: è savia se il suo realismo resta relativo, temperato da abitudini estetiche o empiriche; è pazza se questo realismo è assoluto e originale, se riporta alla coscienza amorosa e spaventata la lettera stessa del Tempo: moto propriamente revulsivo che chiamerò l’estasi
fotografica. Le due vie della Fotografia sono queste”. Così Roland Barthes tratteggiava il percorso della fotografia, riconducendola ora al versante del meramente reale, ora alla sfera del languidamente illusorio.
Se così fosse, dove collocare le opere di
Arturo Ghergo (Macerata, 1901 – Roma, 1959) che con così evidente ambiguità si offrono allo sguardo nella dialettica tra soggetto reale -dive del cinema e della moda, celebrità politiche e religiose, esponenti dell’alta società- e prodotto artistico finale manualmente ritoccato, manipolato, alle soglie del fittizio? Lo stile elaborato da Ghergo, ben documentato nella raffinata antologica milanese -350 scatti che ripercorrono la carriera del fotografo marchigiano- è finalizzato a comunicare il fascino, introducendo così nell’Italia fascista degli anni ‘30 quella
glamour photography nata negli anni ‘20 nel panorama hollywoodiano quale potente mezzo di diffusione del divismo cinematografico.
La
glamour photography e la
fashion photography mirano a rendere l’aura del personaggio, a scindere irrimediabilmente tra divo, oggetto di venerazione, e uomo comune, motivo per il quale Ghergo
non soltanto cura con maniacale attenzione la posa, l’illuminazione, il taglio dell’inquadratura, il tipo di obiettivo, il valore della carta da stampare, ma è altresì scrupoloso nell’eliminare il difetto con il ritocco del negativo, “
corregge i corpi con tagli audaci e sicuri, i seni salgono, la vita si assottiglia, i fianchi spariscono, la silhouette della donna diventa sottile, slanciata, moderna”.
Così prendono vita nuovi modelli femminili che si allontanano dal cliché stereotipato e matronale dell’Italia più conservatrice, proprio come testimoniano le parole di Alice Berciska, collaboratrice del fotografo nel suo studio di via Condotti e poi moglie dell’artista: “
Ghergo ha un forte ascendente psicologico sulla persona che sta davanti alla macchina fotografica, in particolare se si tratta di una donna: la capisce, sa metterla a suo agio, farla sentire bella. Spesso impiega due o tre ore prima di scattare una fotografia. Non di rado l’attrice finisce per svenire dallo sforzo al quale è sottoposta sotto le luci calde dei proiettori. Questo è il momento migliore per ottenere l’espressione voluta: quando la volontà del soggetto non si oppone alla volontà del fotografo”.