È un paradiso insolito quello di Hendrik Krawen (Lubecca, 1963). Sfondi dai colori pastello sui quali s’innestano contaminazioni urbane, porzioni di edifici moderni, a volte quasi futuristici, intrusioni pubblicitarie dai caratteri cubitali, talora comparse umane, che sembrano inserirsi con difficoltà entro i simboli, affetti da gigantismo, della società del consumo e della tecnologia. Sono piccole figure isolate, al massimo in coppia, ciascuna molto presa da sé stessa, dall’azione di camminare, giocare, o ascoltare la musica.
Unica concessione al lirismo, oltre ai colori pastello, è, talvolta, la luna. Una luna che però stenta ad emergere, in parte coperta dall’angolo di un edificio o da enormi container di merci, in parte da una porzione di pilastro in cemento, o ancora offuscata dalla figura di un aeroplano che si allontana o si avvicina, investendola con la sua scia.
Anche l’elemento musicale ricorre di frequente. A volte velato, a volte più esplicito, fino a prendere, infine, il sopravvento in Portraits. Una collezione di dischi di vinile compare all’interno di una stanza con soffitto e pareti giallo-verdi. Il tutto è ripreso dal basso verso l’alto (come immortalato da uno scatto fotografico) rendendo i dischi oggetti più astratti, quasi incombenti. Krawen trae spunto da una collezione che veramente gli appartiene: è musica prevalentemente hip-hop con incursioni jungle, usata soprattutto dai dj nelle discoteche o comunque in occasione di party e feste private.
Solo in un’occasione il lirismo urbano indulge al rovinismo di eco romantico: architettura antica quindi, ma decadente, in macerie.
In 20. Juni 1979 il risultato è spiazzante e suggestivo: la prospettiva è ribaltata, le antiche spoglie di quello che sembra un edificio classico sembrano quasi scivolare verso chi guarda, i margini del quadro tagliano in maniera del tutto arbitraria l’ensemble architettonico, al centro una cariatide dai tratti femminei guarda dall’alto in basso lo spettatore, il gioco chiaroscurale della statua e dell’architettura si apre in un cielo verde-acqua, liberato da uno squarcio nel soffitto.
Lo stesso verde acqua rappresenta il mare in Burning oil tanker. Un mare iper-industrializzato e tecnologico, in cui galleggiano soltanto petroliere, torrette e pescherecci. Le navi, piccole o grandi, completamente scevre da nozioni prospettiche, sono riprese da un punto di vista puramente frontale, giacendo allineate nella parte bassa dell’opera. La superficie pittorica per l’occasione è raddoppiata, con due tele rettangolari unite l’un l’altra: al centro, ad invaderle entrambe, un nuvolone di fumo denso e scuro, proveniente dallo scafo dell’ennesima petroliera. Il fumo intenso, man mano che sale verso l’alto, perde consistenza fino a disperdersi in impercettibili sbavature marroni. È il marrone, del resto, il colore che sempre accompagna le monocromie pastello di queste eccentriche visioni paradisiache.
Krawen, memore della visione maturata in ambito fotografico nella Germania della seconda metà del ‘900, osserva e fotografa i particolari del mondo esterno che più lo colpiscono e poi li proietta sulle sue tele. Per metà pittore, per metà fotografo, decontestualizza le immagini più che costruirvi intorno una narrazione.
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