Michaël Aerts (Dendermonde, 1979) realizza sculture dal fortissimo valore simbolico, le assembla come matrioske per mezzo dei bauli in uso per i trasporti aeroportuali e ne intervalla la dislocazione, frapponendovi inquietanti simulacri-
monstre che, per reminiscenza, fanno riandare col pensiero al
divertissement dei feticisti del sesso. Il tutto accompagnato dal commento sonoro caratteristico dei
rave party e dalla diffusione della “nebbia” a simulare l’ambiente d’una discoteca.
La personale del belga Aerts, che prende il nome dall’
umile dimora losangelina di quel genio, Hugh Hefner, fondatore di “Playboy”, sembra un omaggio alla filosofia del
boudoir di de Sade. E alcune carte dell’artista – ché Michaël Aerts è anche disegnatore – non stonerebbero affatto sul frontespizio di qualche edizione pregiata del trattato filosofico del Divin Marchese.
Ma la sua mostra non è un tributo ai piaceri della carne. È piuttosto la riaffermazione di un valore sempre negativo: il desiderio. Nell’accezione schopenhaueriana del termine. Vale a dire, ahinoi, nella sua accezione deteriore. “
La soddisfazione dell’istinto sessuale è in sé assolutamente riprovevole, in quanto è la più forte affermazione della vita”: così annotava Arthur Schopenhauer, il filosofo della
Volontà come intima essenza del mondo e origine della perenne inquietudine riservata agli esseri umani, costantemente protesi all’appagamento di desideri la cui insoddisfazione si rinnova senza posa in questo eterno presente che è la vita. E il sesso, va de sé, è il correlato ontico del desiderio.
La mostra sembra insistere su una certa idea di monumentalità, ma la traduzione fisica di un concetto ha sempre la parvenza di un’affermazione: la potenza dell’allestimento è l’oggettivazione del valore negativo di un concetto. Intendendo per “negativo” il senso di “opposto all’affermare”. Un togliere, insomma. In un certo senso, la monumentalità della mostra serve a far sopravvivere, nella sua oggettivazione che sia la più adeguata possibile, la negatività del concetto di “desiderio”. Dunque, l’esatto contrario di una filosofia materialistica e antimetafisica, di là dalle scorribande nei territori dei
philosophes.
I lavori di Michaël Aerts si accostano alla possanza scultorea degli obelischi e ne ripropongono la rilevanza di simboli fallici, concetto ribadito successivamente su alcune delle carte, venendo così ad assumere un generale valore totemico. Lo slittamento semantico che dà l’impronta di sé all’opera di Aerts può far pensare all’ineffabilità del monolite di kubrickiana memoria, relativamente al “
che dire?” quando ci si trovi dinanzi a quell’oggetto misterioso, in verità simbolo del dispiegarsi della
ratio umana nella
techné.
Ma, in questo caso, il retroterra ideologico è circoscritto a
un aspetto dell’esistenza, quella sorta di
streben carnale della condizione umana forse mai così pronunciato come nella fase attuale del mondo.