Le teen-ager di
Yumi Karasumaru (Osaka; vive a Bologna e Kawanishi) fissano ammiccanti lo spettatore: la testa reclinata, una mano portata al viso, anche solo un accenno d’ingenuità lasciato trasparire dal volto magnetizza l’attenzione e fa rapidamente tornare alla mente la gestualità antica delle geisha.
Sarebbe però forse più consono il parallelismo con le
maiko – che nella scala gerarchica stanno sul gradino dell’apprendistato – vista la loro fama nell’immaginario comune occidentale: caratterizzate da pettinature e trucchi elaborati, pose rarefatte, sguardi languidi. Come le
Macaon Girls di Karasumaru. Solo che quest’ultime hanno ben poco a che fare con riti e tradizioni del vecchio Giappone. Le modelle che posano per questi ritratti vengono immortalate per le strade di Shibuya, il quartiere più modaiolo di Tokyo, calderone di tendenze e nuovi look, passerella usata dalle ultime generazioni per mettersi in mostra quotidianamente.
Sono ragazzine proiettate nel mito occidentale, acconciate come bambole; hanno capigliature multicolor che ricordano le cotonature degli anni ‘60, il trucco è pesantissimo e gli occhi, se non sono ancora stati ritoccati dal chirurgo, sono sapientemente arrotondati a colpi di eyeliner. Sono le attrici di quelle
Tokyo Stories che l’artista ama ascoltare durante le sue incursioni nel quartiere e che riporta nelle sue performance.
Storie vere, spezzoni di vita che arrivano all’orecchio e si perdono nel brusio di un incrocio, restando incomplete, proprio come le isolette immacolate che emergono sulle tele dell’artista, appena accennate da impalpabili linee a matita. In questo dramma cittadino la scenografia è il paesaggio urbano che, solarizzato come i ritratti, si perde in piccole campiture piatte di colore: fra il brulicare di vita, rumore, cantieri nelle strade di Tokyo, appaiono trafilate a china piccole icone riemerse dal mondo dei cartoon e dei manga, Betty Boop in testa, o stralci di routine sociale come visti attraverso una lente d’ingrandimento, tra festini sui tetti e danze frenetiche in discoteca.
E non può passare inosservato come, seppur nell’ipertecnologica dimensione nipponica, vi sia un’artista votata a raccontare il suo Paese senza passare attraverso quegli strumenti d’eccellenza che l’hanno reso uno dei colossi economici mondiali. Il talento di Karasumaru risiede proprio nella capacità di narrare storie, persone e luoghi, tutti attualissimi, con la stessa pazienza e dedizione tipica dell’eredità pittorica giapponese (e non a caso la tecnica dell’
Ukiyo-e amata da
Hokusai e
Hiroshige puntava a rappresentare allo stesso modo storie e personaggi legati alla quotidianità dei piccoli centri urbani, attrici e lottatori di sumo inclusi).
Il divario fra tradizione e innovazione appare dunque come un’apertura incentivata dalla volontà di dialogo dell’artista, che permette di osservare, attraverso i suoi occhi, un campionario di vita che per noi occidentali rasenta il limite dell’incomprensibile. Ma che ci attira sempre e vorticosamente, proprio a causa di questa distanza spaziale e culturale, attraverso un mezzo e uno stile pittorico ormai superato, eppure mai antico.