Una strada deserta piega verso sinistra, perdendosi in un bosco innevato; acqua stagnante svapora mischiandosi a nebbia; la polvere nell’aria riempie i coni di luce che filtrano dalle finestre. Poi cieli brumosi e trasparente caligine. Dieci oli su tela di medio e grande formato realizzati dal 2006 al 2007 raccontano il recente approdo del percorso artistico di
Claus Vittur (Brunico, 1967). L’
input creativo prende le mosse da un’immagine virtuale, sottoposta a progressive purificazioni ed eliminazioni, fino a conquistare i
minima dell’immagine stessa. La ricerca d’essenza toglie, sbozza e riduce, dando forma a una raffinata estetica selettiva. Vittur fa il vuoto, desertifica il paesaggio per riempirlo di tensione tangibile. Il silenzio è supremo e perfetto. Solo qualche segnale, scostante. L’essenzialità dei dettagli si riverbera in scene sgombre, forse appena abbandonate, dove la figura umana proietta la scia della propria assenza. Gli interni sono svuotati e l’urbanità è desolata.
Si scopre il movente poetico: la modulazione di uno spazio raccolto, intensivo, a tratti asettico. Le linee, i vettori compositivi e i morbidi volumi, giocati tra l’inconsistenza e la monumentalità, sono scolpiti dalla luce. Mentre la calibratura del vuoto si congela in un istante sospeso.
L’immagine risulta sfuocata da una miopia dello sguardo e il realismo è filtrato, non aderente: l’artista mette gli accenti alla natura, la integra e l’approfondisce. Il naturalismo di Vittur mente sulla sua attitudine imitativa. L’atmosfera rarefatta corregge il realismo, inclinandolo verso il simbolico e il mentale. Nella mollezza di un perenne “primo inverno” bergmaniano, l’
habitat umano ritorna a essere un
luogo, anonimità e perfetta identità, colto in una sorta di vuoto originario. Una strana serenità apparente sembra ricostruire il peso (metafisico?) delle cose, mentre un sotterraneo sentimento d’irrequietezza e metastabilità gonfia la tensione di un nervosismo d’attesa.
Lunghi tagli prospettici
à la Edward Hopper e luci taglienti dalla consistenza artificiale inquadrano gli ambienti in una geometria ordinata, mentre il virtuosismo tecnico della pennellata -il cui frutto è un trattamento dell’immagine e un colorismo fotografico simili a quelli del ciclo
18 ottobre 1977 di
Gerhard Richter– si appoggia su un uso del colore scarno e ponderato, che oscilla tra la bicromia pastello e la monocromia di un pervasivo grigio plumbeo. Vittur sembra allinearsi, con tradizionale originalità, a quella
nouvelle vague iperclassica ed esistenzialista che attraversa l’ultima generazione dell’arte italiana. Due nomi per tutti:
Giulio Durini e
Federico Guida.
Un fitto sospiro attraversa le tele della personale comasca. Il clima crepuscolare, il senso della mancanza e dell’impossibilità dell’afferramento, entrambi palpabili, rendono i luoghi di Vittur ovattati e ronzanti. Aria densa, tronchi pallidi come cenere, nubi filacciose e torve attraversate da lontani squarci di luce livida mettono in scena una leggerezza cullante. E, segretamente, una dolce sensazione di disequilibrio.