Sono ovunque, in galleria: arrampicati sulle pareti, rannicchiati in un angolo, seduti su scranni sarcasticamente maestosi. Insinuanti, insistenti, subdoli. Assolutamente spiazzanti. Chiamano, irridono, turbano lo sguardo quieto del visitatore, che cercherebbe pace. Sono gli ominidi di
Gianni Cuomo (Battipaglia, 1962; vive a Milano), sculture a forma di corpo e corpi a forma di opera d’arte, che creano un piccolo villaggio della comunicazione. O, meglio, contro la comunicazione. L’artista di origine campana torna al Torchio per proporre la sua dolceamara riflessione sull’uomo contemporaneo e i suoi sistemi, attraverso un linguaggio artistico fortemente personalizzato e rigorosamente in bianco e nero.
Innanzitutto, le sculture. Protagonista indiscussa è la figura umana, che mantiene i suoi tratti essenziali ma perde qualsiasi connotazione individuale. L’effetto di alienazione che si ottiene risulta talora divertente, talora pateticamente scomodo, ma senza dubbio fa riflettere. Gli ominidi sono per lo più soli, singoli esseri spersonalizzati colti in atteggiamenti drammatici, meditativi, ossessionati.
A volte piangono, altre riflettono, altre ancora si raccolgono in preghiera. Qualcuno ha unghie lunghissime, beffa di un corpo sbagliato; qualcun altro ha protesi che sostituiscono gli arti; altri ancora sono avvolti in bende, oppure hanno tubi di plastica e fili che li collegano a chissà quale mondo esterno. Ma il loro vero punto in comune, il tatuaggio che li marchia come un eterno invito alla riflessione, è l’ossessivo ripetersi sulla pelle di catene infinite di lettere e numeri. E questo per colpa di un sistema di comunicazione mass-mediatico che sta risucchiando tutti in un vortice d’incomprensibilità. Che sta elevando un muro di incomunicabilità tra uomo e uomo, come dimostra la coppia di ominidi
Lipwek, chiusi ciascuno dentro la propria teca di vetro e accomunati solo da un sistema di tubi catodici. Accanto alle sculture, Cuomo presenta una serie di tavole a tecnica mista, in cui il senso di frammentazione raggiunge il culmine. Il bombardamento d’immagini e messaggi eterogenei ai quali siamo sottoposti quotidianamente -ormai quasi a livello inconscio- si traduce in una sovrapposizione disconnessa di immagini di taglio, con provenienza e significato diversissimi. Stralci di architetture, di visi e corpi, di folle, di cinema, di lettere e numeri si sovrappongono scomposti in un insieme intermittente e ossessionante, che fa quasi invocare il silenzio dei sensi. Anche le tavole, per quanto meno accattivanti delle sculture, esprimono al meglio gli effetti di una comunicazione invasiva, che ha ormai perso di vista la propria finalità essenziale in un trionfo nauseante di sovrabbondanza.
I lavori di Cuomo lasciano lo spettatore indeciso tra il divertimento e l’amarezza. Di fronte a una sua scultura non sappiamo se sorridere o angosciarci, se vederla con la tenerezza di un vezzeggiativo o con l’incubo di un pensiero scomodo. Lasciamo la mostra con un sorriso amaro, e un sottile filo d’inquietudine. Sotto la pelle, ci si è irrimediabilmente infilato il tarlo del dubbio.