La pittura di
Tom Fabritius (Radeberg, 1972) genera irrimediabilmente una serie di interrogativi. Innanzitutto, riguardo ai soggetti scelti per le sue tele in liquefazione e alla loro connessione intrinseca. In secondo luogo, sulla tecnica utilizzata, così romanticamente acquosa. Infine, ma non ultimo, sul perché la personale da Colombo (la prima in Italia) si intitoli
Suspicion.
Saper rispondere alle prime due domande coincide con il piacevole disvelamento del mondo dell’artista tedesco e con la presa di coscienza del suo procedere lavorativo. Quello di Fabritius è un cammino articolato in tre tappe: nette, distinte, dichiarate. Punto di partenza è, semplicemente, la televisione. Punto di arrivo è, evidentemente, la pittura. Anello di congiunzione fra le due è, piuttosto intuitivamente, la fotografia. Nulla di complesso, all’apparenza: Fabritius si accosta con occhio vergine al mezzo mediatico per eccellenza e ruba numerosi scatti con la macchina fotografica, affidandosi al caso, senza una selezione preventiva, senza una strategia voluta. Quindi, stampa e seleziona un numero ristretto di frame, astraendoli dalla sovraofferta d’immagini che fornisce oggi la televisione. E queste sono destinate a trasformarsi in pittura, in una serie di tele strappate al caso senza averne minimamente l’aria.
Queste cose vanno chieste, lette, sapute. Altrimenti sarebbe più facile pensare che Fabritius sia uno dei tanti cantori del quotidiano, di un intimismo locale e familiare più vicino alla banalità crepuscolare che a una ricerca estetica prefissata. Il passaggio sulla tela avviene attraverso una pittura polverosa che è fatta di acqua, di liquido, di soffio. Di fronte a una sua tela (in mostra ce ne sono di vari formati, dalle più grandi all’ingresso della galleria fino alla serie di acquerelli 12×12 cm raccolti in uno spazio sottostante), si prova una sensazione indefinibile di leggerezza, offuscamento, delicatezza.
I volti, gli ambienti, i dettagli, le scene più animate (tutti, vale la pena ripeterlo, sistematicamente strappati al caso dell’offerta iconografica televisiva) sembrano immersi in uno scoloramento acquoso e sognante, che livella tutte le scelte figurative in un ovatta di irrealtà. La gamma cromatica, quasi conseguenza naturale, sceglie la lievità di una colorazione chiara e si tiene accuratamente lontana da un’eccessiva intrusione di nero, marrone, grigio. Dall’impressionismo al primo
Gerhard Richter, una tradizione amabile e raffinata, che fa della pittura un lieve esercizio di stile.
Resta da chiarire un solo perché. Dichiaratamente, le opere in mostra dovrebbero suscitare un’atmosfera di sospetto, di ambiguità. Ma ci risulta piuttosto difficile cogliere una simile sensazione. Forse si potrebbe parlare di una forma di “paura”. Paura nei confronti dell’eccessiva medializzazione del mezzo artistico, di rimanere troppo aderenti al mezzo mediatico. Da lì si parte, ma poi si preferisce allontanarsi, tornare verso la tradizione, alla fotografia e poi subito alla pittura, per scongiurare la superficialità della televisione e scegliere l’immortalità del mezzo artistico più universale.
È solo una possibile interpretazione. D’altro canto, il significato originale del verbo
suspicio non ha necessariamente una connotazione negativa: significa, più semplicemente,
guardare. Tutto questo, in fondo, è il modo con cui Tom Fabritius guardare al mondo e all’arte.