La
mostra ha ovviamente implicazioni diplomatiche e geopolitiche, ma soprattutto
traccia alcune linee-guida nella produzione di oggetti d’arte e utensili sotto
la mezzaluna. L’ensemble nasce sotto
il segno dell’eterogeneità ed è inevitabile quando si opera una cernita su
oggetti provenienti da un’area che si estende dall’India all’Andalusia, dalle
prime elaborazioni dell’XI secolo fino al linguaggio compiuto dei grandi imperi
ottomano, safavide e moghul tra XVI e XVIII secolo.
John Ruskin notò nell’arabesco
un movimento verso l’essenza delle cose, e quindi all’astrazione, e la tensione
al divino per ripetizione e rarefazione che è anche del sufismo. Se il
pregiudizio di un’iconoclastia integralista dell’arte islamica è sfatato da una
serie di splendide miniature policrome su seta – semmai l’artista poteva
confutare l’accusa bigotta di “realismo” infrangendo le regole prospettiche
quando assemblava scene descrittive puntualissime in un insieme – è vero che
ogni ornamento tende alla cifra. Il disegno si fa progressione geometrica,
ripetizione modulare, tensione all’infinita riproducibilità del motivo (‘al-Fann’ significa
proprio ‘arte
infinita’).
La coincidenza di estetica e
matematica ha il solo corrispettivo, nell’Occidente antico, nella grande teoria
pitagorica. Si tratta di un linguaggio astratto, che deduce le formule del
cosmo. Ad esempio, in Iran, un giardino che accoglie al centro una vasca con
pavoni diventa un tappeto, tessuto a forme geometriche e arabeschi. L’arabesco
è infatti la forma vegetale (o animale) che si fa elemento decorativo e tende
alla forma pura; gli europei eleveranno programmaticamente la fitomorfia a
fondamento di una poetica solo con l’Art Nouveau.
L’arte islamica è l’arte della
cifra, e della parola. Un fregio, staccato da una moschea, ripete all’infinito ‘al-Yumm’ (‘felicità’)
come un motivo speculare, un mantra. Ugualmente Islam e culture estremorientali
si specchiano nella pratica della calligrafia e nell’ontologia del calligramma:
senso e significante si fondono nel gesto del calligrafo. Le sure coraniche di
lode al creato esautorano le pagine dei codici miniati, il cui equilibrio grafico,
cromatico e compositivo – e ancor prima la tecnica iniziatica, magica che
informa il gesto – dice la bellezza del mondo al di qua dei significati.
Gli oggetti (piatti, brocche,
gioielli, vasi, spade, spille…) raccontano civiltà sofisticate che combattono
l’horror vacui con l’organizzazione
dei segni, l’addomesticamento dei materiali e il rilievo delle superfici;
parlano di sceicchi che muoiono dalla voglia di appropriarsi delle tecniche più
raffinate (si inventa la “pasta fritta” per emulare la porcellana cinese) per
asservirle a rappresentazioni autoctone.
Un’arte onnivora, ma soprattutto
influente a Venezia, in Cina e in tutte le aeree di confine e commercio, il cui
emblema può essere l’Alahmbra a Granada, giardino di delizie e palazzo
favoloso, residuo di un’arte dalle forme e figure ideali in un territorio poi
riconquistato dai re cattolicissimi, dai loro palazzi ortogonali e i loro
ritratti ufficiali.
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alessandro ronchi
mostra
visitata il 20 ottobre 2010
dal 20 ottobre 2010 al 30 gennaio 2011
Arte della civiltà islamica
a cura di Giovanni Curatola
Palazzo Reale
Piazza Duomo, 12 – 20122 Milano
Orario: tutti i giorni ore 9.30-19.30; lunedì ore 14.30-19.30; giovedì ore
9.30-22.30 (la biglietteria chiude un’ora prima)
Ingresso: intero € 9; ridotto € 7,50
Catalogo Skira
Info: tel. +39 02875672; www.arteislamica.it
[exibart]
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