Se dite a Giorgio Marconi che, per vedere veramente -in ogni senso, capiamoci- dei lavori notevoli di Mario Schifano (Homs, Libia, 1934 – Roma 1998), una tappa obbligata è la sua Fondazione, questi si schermirà, ma con un sorriso che la dice lunga. Poiché, se in occasione della prima tappa di quella che doveva essere una trilogia dedicata all’artista, avevamo accennato al tripudio di mostre che gli venivano consacrate, ora va ribadito che le polemiche che ruotano intorno al pittore romano, suo malgrado e anche a causa di una produzione mastodontica, sono pressoché all’ordine del giorno. In particolare a causa della quantità sterminata di falsi che circolano nel nostro Paese e non solo. Recarsi allora ad una mostra di carattere ancora una volta museale, permette di avere il cuore in pace da quel punto di vista. E, non va sottovalutato, di godere d’un approccio curatoriale al contempo rigoroso e simpatetico. Del primo termine testimonia l’attenzione filologica prestata a periodi sempre molto brevi ed esemplificati con pezzi altamente significativi; il secondo è garantito dal rapporto “esclusivo” che l’artista e il gallerista avevano istituito in quegli anni (un’esclusiva molto particolare, rammenta con ironia lo stesso Marconi nella premessa al libro che accompagna la mostra).
Si parte allora con l’influenza di Balla, esplicita nelle opere intitolate When I Remember Giacomo Balla (1964), palese negli “studi” dello stesso anno che hanno come soggetto le gambe di esseri umani colti nell’atto di camminare. Nel frattempo, a cavallo fra ’64 e ’65, Schifano sviluppa il ciclo di Paesaggi anemici. I supporti cominciano a recare traccia di elementi geometrici, anzi da geometra. È il preludio all’utilizzo del perspex, che viene applicato sulla tela per rendere appunto anemico il paesaggio. In Ossigeno ossigeno (1965), otto dei nove riquadri di una sorta di finestra sbiadiscono la vista aldilà del perspex, dove paiono rantolare alcuni alberi. E il vetro mancante dell’ultima tessera in basso a destra non è d’aiuto –o forse sì-, poiché offre alla vista dello spettatore un rettangolo monocromo giallo.
In altre opere il perspex assume una valenza meno “didascalica” e entra di diritto nell’economia compositiva dei lavori, sagomato in nuvole grige o righelli trasparenti, squadre azzurre e mari d’un blu intenso.
Mentre si sviluppano altre tematiche e influenze, il 1966 è soprattutto l’anno del Futurismo rivisitato. Dalla celebre fotografia che immortalava il gruppo, Schifano ne trae una versione spray, con l’utilizzo di quelle sagome che ancora oggi vengono usate da tanti street artists. Una parentesi per quello che viene Chiamato K. Malevič (1965), un lavoro articolato in 7 pannelli, in forza alla collezione Sperone, che unisce con un risultato devastante l’impiego di spray e perspex. Poi l’interesse per video e fotografia, come rammenta Un paesaggio dedicato a Jean-Luc Godard (bianco e nero) (1967), collage che “inquadra” una stampa fotografica al negativo con una miriade di stelle dorate e argentate. Perché il ’67 è pure l’anno di Tuttestelle, ennesima manìa dell’artista che, nell’esaurire o, meglio, sfinendo ogni ciclo, viaggia con un bagaglio leggero, portando con sé l’essenziale di ciò che si è sedimentato in ogni tappa del suo frenetico percorso.
L’ulteriore passaggio avviene senza soluzione di continuità, con le stelle che sovrastano i primi Compagni compagni (1968) con falce e martello. L’impegno politico segna anche una delle rarissime pause nell’attività dell’artista. Col 1970 si entra nell’epoca dei Paesaggi TV, fra le più note della sua opera. Le tre televisioni simultaneamente accese cominciano a dare i loro frutti. Sono emulsioni e interventi cromatici su pellicole fotografiche e tele dove scorrono, fino a scomparire, immagini più o meno “iconiche” di quel periodo, da Stalin all’ora esatta.
Il 1970 è anche l’anno in cui Marconi straccia il contratto con Schifano. Che doveva essere a Milano per allestire la mostra, mentre invece arrivò una richiesta di denaro da Bangkok, ricorda il gallerista con una certa amarezza.
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