Sono tempi, i nostri, in cui i rifiuti hanno un’eccezionale centralità nel pensiero pubblico, sono costantemente, nostro malgrado, al centro dell’attenzione personale e mediatica. La spazzatura è sulla bocca di tutti, contamina ogni genere di discorso, dal politico all’ecologico, dal serio al ridicolo. L’arte, come sappiamo, non ha mai disdegnato l’argomento e mai come nel Novecento, forse, vi si è dedicata con perizia d’indagine, ammaliata dal fascino del trash (d’attualità nella campagna pubblicitaria del Madre e nelle pagine dedicategli da “Alias”).
Ma unire questo tema al contemporaneo, legarlo a doppio nodo con lo smaltimento e il riciclo del reietto non è da tutti i giorni. Invece è proprio questa l’interpretazione data dal curatore Paolo Campiglio agli oggetti trasformati, trasmutati, che l’intraprendenza del mondo contadino ha saputo riadattare a suo uso e consumo. Al di là di quanto sembra, l’esposizione di cui si parla non tratta reperti etnografici, pur esibendo come tesi (e materialmente in mostra) alcuni oggetti “piegati” dalla cultura popolare a una funzione diversa da quella per cui erano nati.
Gli artisti invitati, infatti, vengono paragonati a moderni
bricoleur, e le loro opere trattate alle stregua degli ambigui pezzi del Museo Guatelli di Ozzano Taro di Collecchio.
La differenza fondamentale viene individuata nello scopo di queste trasformazioni: le une operate per necessità, per bisogno e utilità pratica, le altre generate per offrire una percezione diversa del reale quotidiano. Appartengono a quest’ultima compagine tanto gli assemblaggi di goniometri, scalimetri, curvilinee costruiti da
Dafne Boggeri come déjà-vu dei test di Rorschach, quanto il design di recupero di
Flavio Favelli, figlio di una passione per il passato, per l’effetto vintage, perfettamente inserito in una poetica del patchwork di età e di stili.
Più vicini a un’estetica popolare i marchingegni di rumorosa ferraglia di
Francesco Bocchini, sul lieve confine tra giocattolo d’epoca e macchina celibe di sapore novo-realista. Così come le creazioni di
Laura Renna, direttamente derivate dai materiali dell’artigianato e dell’industria, che la ritrovata manualità esperta dell’artista-
homo faber trasla in icone di un tempo perduto. O, ancora, gli spunti di riflessione proposti da
Marcello Maloberti, sempre attento alle vite “parallele” nella nostra società, identificate in un “
racconto contratto per simboli”, insieme a quelli insiti nell’installazione di
Perino&Vele, in cui pesanti coperte stese, fatte letteralmente di materiale di riciclo, portano i nomi tipici della tradizione campana.
Su tutti aleggia l’ombra del “militarista di ritorno”
Tom Sachs, impegnato nello svelamento del potere dei simboli contemporanei e, allo stesso tempo, vittima in prima persona della passione per l’oggetto, per ciò che si nasconde dietro l’oggetto stesso, per ciò che viene continuamente scartato.