Esaltazione, soggezione e ambivalenza: questa la radiografia dell’inconscio dello spettatore di fronte alle opere di Erwin Olaf (1959, Hilversum), che siano fotografie oppure video. L’artista olandese azzera le aspettative del visitatore non appena alza il sipario del suo personale teatro dell’assurdo. Plurimi i riferimenti e le citazioni, da tutti i campi dall’arte: da Brecht a Ionesco, da Tarantino a Kubrick, per giungere alla Sherman e a Mappelthorpe.
La ricerca di Olaf mina con dissacrante ironia le convenzioni del vivere contemporaneo, soprattutto ama trasfigurare le patinate fotografie fashion. Attraverso due serie di scatti scopriamo, in questa seconda tranche della mostra, gli esordi dell’artista: Chessmen, esposta nel 1988 al Ludwig di Colonia, e Ten Tables, commissionata nel 1993 dal CBK di Groningen. Quest’ultima serie, in occasione del Salone del Mobile, è stata affiancata da dieci tavoli progettati da grandi maestri del design. Idea attinente, forse un po’ tirata.
Erotismo e paradosso si mettono in gioco sull’improbabile scacchiera che Olaf dispiega in Chessmen. 32 sono le fotografie, come le pedine degli scacchi. Qui però le figure non si muovono sulla tradizionale griglia, ma sono impaginate in composizioni di solenne classicità. Il silenzio che regna durante il gioco è però lo stesso. Nel mansueto pony, montato da un giovane seminudo con calzari romani, riconosciamo allora il “cavallo”. Giochiamo o siamo giocati?, ci chiedono i protagonisti delle opere. La risposta viene da sé: “Fai i tuoi calcoli e anticipa l’avversario”.
Nella serie Ten tables i personaggi sembrano voler amplificare i propri sensi grazie ai coni di metallo che distorcono i loro nasi. Forse sono ancora fiduciosi in una possibile comunicazione, che però resta imprigionata, e quei nasi diventano metafora di una festa mai iniziata. Model ci mostra una donna assisa su un piccolo commode settecentesco schiacciato dal peso della giunonica statuetta.
Tornando alla prima parte della mostra, le rigide immagini prendono movimento grazie ai video Rouge, Rain e Annoyed. Ma le allusioni non cambiano. Il legame tra gioco e violenza è portato alle estreme conseguenze nella videoinstallazione Rouge, che ci presenta l’amara trasfigurazione di una partita di calcio dal ritmo adrenalinico. I giocatori, inguainati in abitini fetish, lottano per esibire un pallone da calcio. In porta una ragazza in babydoll che, all’improvviso, è inondata da uno scroscio di sangue.
Rain rievoca le grottesche ipocrisie familiari narrate da Bertoldt Brecht, filtrate però dagli ambienti claustrofobici di Ionesco. Riuniti attorno ad una tavola imbandita, i commensali, rigorosamente in silenzio, attendono un pasto che non consumeranno mai. Unico segno dello scorrere del tempo è la pioggia, che scivola sui vetri lavando invano i segni dell’incomprensione; un domestico stillicidio. Il silenzio torna a incombere in Annoyed, serie di tre proiezioni simultanee. Ognuna mostra le diverse reazioni inscenate da tre personaggi stereotipati, infastiditi dai rumori provenienti dai vicini d’appartamento: anche in questo caso, i protagonisti non porteranno a termine la loro azione.
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